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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

NELLA FILIERA LA FORZA DELLA MODA

Al fascino da «impudente affabulatore» di Barack Obama, Patrizio Bertelli preferisce di gran lunga il pragmatismo di Angela Merkel e spera che la cancelliera tedesca e il suo partito «vincano le elezioni politiche di domenica prossima». Tra un articolo assai documentato ma pessimista e un reportage meno dotto ma che lasci intravedere qualche luce, oltre alle ombre, sceglie senza esitazioni il secondo, qualunque sia l’argomento trattato. Non cerca il consenso dei suoi interlocutori - siano questi i potenziali clienti dei marchi del gruppo o i suoi collaboratori - e non sopporta più la superficialità con la quale viene trattato dalla stampa e dalle istituzioni il sistema moda italiano. Ne ha per tutti, l’amministratore delegato di Prada spa, ma non si tratta di pessimismo, anzi. Le sue sono piuttosto le critiche costruttive dell’imprenditore che ai proclami preferisce i fatti e che se deve riflettere, vuole farlo guardando e imparando dal passato, senza mai rinnegarlo. E cercando sempre di vedere i lati positivi di una situazione.
Alla vigilia della sfilata milanese e della contestuale riapertura del grande negozio Prada di corso Venezia 3,completamente rinnovato dall’architetto Roberto Baciocchi, Patrizio Bertelli non si dilunga sugli effetti della crisi. Preferisce sottolineare i punti di forza da cui tutti, la sua azienda e l’intero paese, potrebbero ripartire: «L’Italia è l’unica nazione al mondo dove esiste ancora la filiera completa del tessile-abbigliamento-moda, nemmeno la Francia la possiede più: è su questo che dovremmo concentrarci, invece di perderci in inutili discussioni su come etichettare il made in Italy, tanto per citare la cronaca degli ultimi giorni. Di questa filiera fanno parte i grandi marchi, a volte con strutture verticalizzate come la nostra, una miriade di piccole e medie imprese e centinaia di migliaia di persone. Senza dimenticare la rete di distribuzione: se si usasse solo la logica, bisognerebbe parlare del sistema moda come cardine dell’economia italiana».
Si diverte, l’amministratore delegato di Prada, a esercitare la sua vis polemica, ma lo fa in tono beffardo, salvo tornare davvero serio quando parla del suo gruppo, uno dei più grandi in Italia, che il 31 gennaio scorso ha chiuso l’anno fiscale 2008 con ricavi per 1.648 milioni (contro i 1.660 del 2007) e un ebitda di 282,3 milioni, cioè il 17,1% del fatturato, in lieve calo rispetto ai 316 milioni dell’anno precedente. Ma che ha aumentato gli investimenti, saliti del 69% a 158,7 milioni, per rafforzare l’area industriale e la rete di negozi.«La tentazione di criticare le scelte degli altri, quelle politiche in particolare,c’è sempre,ma la verità è che io posso parlare con cognizione di causa solo del mio lavoro, del nostro gruppo: con il negozio di Milano inauguriamo una nuova era. Credo sia finito il tempo dei monomarca standardizzati, ogni città di ogni paese ha diritto a uno spazio progettato ad hoc. Ma c’è di più: in corso Venezia sperimenteremo un nuovo modo di personalizzare i prodotti. Far incidere a mano, magari persino in oro zecchino, le proprie iniziali su una borsa in coccodrillo da migliaia di euro è ormai un fatto acquisito. La vera sfida è personalizzare i jeans o le magliette, come faremo noi». Prada ha costruito la sua immagine anche sul rapporto con gli architetti: il negozio di Tokyo, creato dallo studio Herzog&De Meuron, o gli Epicentri di Soho, a New York, e di Los Ange-les, firmati da Rem Koolhaas, non sono meri contenitori di prodotti, ma straordinari esempi di architettura contemporanea. una fase da considerare conclusa? «Non necessariamente, perché il fascino esercitato dal gruppo Prada sui consumatori non è legato solo ai prodotti che facciamo, ma ai legami che abbiamo costruito, lungo i decenni, con l’architettura e l’arte. Legami che non abbiamo alcuna intenzione di interrompere, anzi, come dimostra il recente impegno per il Transformer ( lo spettacolare "edificio rotante" inaugurato da Prada a Seul, ndr) ».
Prada sfila a Milano e miu miu, la linea giovane del gruppo, a Parigi. Bertelli passa probabilmente più tempo all’estero che in Italia: ci sono paesi da prendere a modello? «Non invidio nessuno, né vorrei essere nato negli Stati Uniti: sono felice di essere europeo e di portare sulle spalle il peso di tanti secoli di storia e cultura. Non si può vivere solo nel presente, come sembrano fare gli americani, a partire da Obama: il futuro si costruisce anche guardando al passato. Mi stupisce molto negativamente la totale incapacità della maggior parte delle persone che lavorano nella moda di studiare il nostro passato, la storia del costume: se fossimo tutti più consapevoli di quanto l’evoluzione del modo di vestire abbia influenzato, a volte favorito, i cambiamenti sociali e culturali, saremmo tutti più orgogliosi del nostro ruolo. E nessuno si vergognerebbe più di produrre vestiti e non automobili».