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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

Il sogno anti-crisi dei mobilieri «In rete per un’Ikea italiana» - Per il mobile italiano è il più duro degli autunni, per l’Ikea si prospettano invece nuove occasioni di sviluppo

Il sogno anti-crisi dei mobilieri «In rete per un’Ikea italiana» - Per il mobile italiano è il più duro degli autunni, per l’Ikea si prospettano invece nuove occasioni di sviluppo. Il presidente della Federlegno Rosario Messina sciorina numeri che lui stesso definisce «da terza guerra mondiale»: le vendite negli Usa so­no crollate del 50%, in Europa del 30%, in Russia siamo a -40% e in Italia il mercato è sceso di un quarto. Il distretto più colpito è quello del divano pugliese (-42%), ma an­che su Pordenone (-29%) e la Lombardia (-25%) sventola bandiera bianca. Il plenipo­tenziario di Ikea in Italia, Roberto Monti, metà svedese metà italiano, ha invece il sor­riso sulla bocca: ha chiuso l’esercizio con +3,8% e nei prossimi mesi aprirà tre nuovi store (a Gorizia, Salerno e San Giuliano Mi­lanese) e il primo shopping center. Dove il made in Italy batte in ritirata, la multinazio­nale gialloblù va avanti da caterpillar. La pa­rola crisi non fa parte del suo catalogo. Come si spiega questa contraddizione e cosa pensa di fare il made in Italy per reagi­re? Il modello Ikea appare rodatissimo. Nel­la penisola ha 6 mila dipendenti, un con­trollo ferreo sulla filiera produttiva per te­nere a bada i prezzi e un parco fornitori in­digeni di prima qualità. Monti li cita addi­rittura come «partners» e si chiamano Savi­ola, Bormioli, Media profili, Friuli Intagli e così via. L’immagine dell’azienda è alta, i no global hanno provato a ridicolizzarla co­me la McDonald’s del divano e a metterla nel mirino («lavoratori italiani, mobili sve­desi, stipendi cinesi»). Ma a parte un sito, uno sketch dei comici di Zelig e qualche azione di lotta sindacale, altro non è succes­so. Ikea, nonostante non sia quotata in Bor­sa e sia molta parca di informazioni sui con­ti societari, per gli italiani è sinonimo di li­bertà e anticonformismo. Capita che a cena tra amici si giochi a chi ricorda, da Billy a Klippan, il maggior numero di quei nomi strampalati con cui gli svedesi battezzano ai mobili. Anche la politica ha cominciato a tenerne conto e così Ikea ha ottenuto a Cor­sico un svincolo stradale ad hoc, mandan­do su tutte le furie i concorrenti. L’accusa più grave è che gli svedesi copino con una certa scientificità i nostri designer. Monti si difende sostenendo che anche l’Ikea ha i suoi creativi e che comunque dopo un po’ in qualsiasi ambiente gli schemi finiscono per omologarsi. «E poi chi viene da noi pri­ma che un armadio o una sedia vuole una soluzione di arredamento, un’idea diversa e noi gliela diamo». I mobilieri italiani han­no nei confronti di Ikea un rapporto di amo­re e odio. Loro che danno vita ogni anno al Salone del Mobile, la manifestazione che fa sentire Milano speciale, che sposa cultura e mondanità, sono impotenti di fronte allo strapotere degli scandinavi. Carlo Gugliel­mi, presidente del Cosmit (che organizza il Salone), racconta di averci provato a costru­ire un canale distributivo italiano. Acqui­stò i negozi Morassutti, studiò una formula adatta ad un pubblico giovane e raffinato e mise in catalogo i prodotti Alessi e Kartell. «Ma non avevo i capitali per un’operazione a largo raggio, per aprire tanti negozi da 2 mila metri quadri ciascuno - racconta - co­sì cedetti la catena di negozi alla Rinascen­te ». Che scelse un’altra strada. Quello che avrebbe dovuto fare la Rina­scente lo ha fatto invece Ikea. «Scontiamo l’incapacità delle nostre piccole imprese di aggregarsi, molti preferiscono servire l’Ikea piuttosto che contribuire a creare una formula italiana» accusa Guglielmi. Ep­pure la Rinascente ha - dai tempi del miti­co Umberto Brustio - la vocazione di vetto­re del made in Italy. Tanto che il presidente del Cosmit pensa che ci sia ancora spazio per un modello distributivo italiano capace di portare il nostro design a New York o a Parigi. Certo, aggiunge, ci vorrebbero delle banche capaci di inventare progetti di svi­luppo, «ma non ne vedo». Messina, proprietario della Flou, è meno ottimista di Guglielmi. Sostiene che ad aver ammazzato la distribuzione italiana è stata l’estrema polverizzazione dell’offerta e la confusione sugli sconti. Eppure, a suo dire, non va sottovalutata la tradizione ita­liana dei Grappeggia e degli Aiazzone dei tempi d’oro fino oggi a Emmezeta e Semera­ro. «Ma non è stata aiutata. Troppe licenze, è mancata una politica industriale nella di­stribuzione così come nella promozione dell’export. La verità è che l’Italia è sempre il paese dell’auto, gli incentivi per la Fiat non mancano mai».