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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

PAUL KRUGMAN. GLI ERRORI DEGLI ECONOMISTI


Oggi è difficile crederci, ma fino a qualche mese fa gli economisti erano fieri
dei loro successi. Pensavano che stesse cominciando l’età dell’oro degli economisti. Sul piano teorico, credevano di aver risolto i loro contrasti. Nel 2008 Olivier Blanchard dell’Mit, oggi capo economista del Fondomonetario internazionale, diceva che lo stato della macroeconomia, la scienza che studia i grandi fenomeni generali come le recessioni, era buono. Le battaglie di ieri sono finite ed è stata raggiunta
’un’ampia convergenza di idee”, scriveva nel suo saggio intitolato The state of macro. Anche nel mondo reale gli economisti credevano di avere tutto sotto controllo: il ”problema centrale, quello di come scongiurare le depressioni, è stato risolto”, sosteneva nel 2003 Robert Lucas, dell’università di Chicago, nel suo discorso all’American economic association. Nel 2004 Ben Bernanke, ex professore di
Princeton e capo della Federal reserve, lodava la ”grande moderazione” che aveva
caratterizzato l’economia degli ultimi vent’anni e la attribuiva in parte ai progressi
della politica economica.
Poi l’anno scorso è crollato tutto. Pochi economisti avevano intuito che la crisi stava arrivando, ma l’aspetto più grave è un altro: la possibilità che nell’economia di mercato potessero verificarsi dei fallimenti catastrofici non rientrava nel loro orizzonte. Negli anni d’oro, gli economisti finanziari si erano convinti che i mercati fossero intrinsecamente stabili, che i titoli e le altre attività finanziarie avessero sempre un prezzo giusto. Nelle loro previsioni non c’era nulla che lasciasse immaginare un crollo come quello dell’anno scorso. I macroeconomisti, invece, avevano opinioni divergenti. Ma la divisione principale era tra chi ripeteva che le economie di mercato non vanno mai fuori strada e chi pensava che a volte possono anche andare fuori strada, ma qualunque deviazione può essere corretta dall’onnipotente Federal Reserve. Nessuna delle due parti era pronta ad affrontare un sistema che poteva uscire dai binari malgrado tutti gli sforzi della Fed.
Dopo lo scoppio della crisi, le divergenze sono aumentate. Oggi Lucas sostiene
che i piani di stimolo dell’amministrazione Obama sono ”ciarpame economico” e il suo collega di Chicago John Cochrane dichiara che si basano su ”favole” screditate. Brad DeLong, dell’università di Berkeley, parla di un ”crollo intellettuale” della scuola di Chicago. Secondo me, invece, gli economisti di Chicago sono figli di un medioevo della macroeconomia in cui un sapere duramente conquistato era inito nel dimenticatoio.
Cosa è successo agli economisti? E che strada prenderanno ora?
Gli economisti sono andati fuori strada perché hanno confuso la bellezza, rivestita
di calcoli matematici affascinanti, con la verità. Prima della grande depressione la maggior parte degli economisti pensava che il capitalismo fosse un sistema perfetto o quasi. Quell’idea diventò insostenibile di fronte alla disoccupazione di massa, ma quando il ricordo della grande depressione è svanito, gli economisti sono tornati a innamorarsi della vecchia visione idealizzata: un’economia in cui individui razionali interagiscono in mercati perfetti.
Purtroppo questa visione edulcorata e romantica dell’economia ha spinto molti a chiudere gli occhi di fronte alle cose che possono andare storte: i limiti della razionalità umana (che spesso provocano le bolle e il loro scoppio), i problemi delle istituzioni (che possono impazzire), i difetti dei mercati (che determinano crolli improvvisi del sistema) e i pericoli che si creano quando i regolatori non credono alla regolamentazione. Molto più dificile è dire dove andrà ora il mestiere di economista. Ma quello che è quasi certo è che gli esperti di economia dovranno imparare a convivere con il disordine. Dovranno, cioè, cominciare a capire l’importanza dei comportamenti irrazionali e spesso imprevedibili, affrontare le imperfezioni che di solito caratterizzano i mercati e rassegnarsi al fatto che in economia la strada verso un’elegante ”teoria del tutto” è ancora molto lunga. Sul piano pratico, questo si tradurrà in scelte politiche più prudenti e minore disponibilità a smantellare i meccanismi di tutela, convinti che i mercati risolveranno tutti i problemi.

L’offensiva dei monetaristi
La nascita dell’economia come scienza viene di solito attribuita ad Adam Smith,
che nel 1776 pubblicò La ricchezza delle nazioni. Nei centosessant’anni successivi si sviluppò un importante corpo di teorie economiche il cui messaggio centrale era: fidatevi dei mercati. Gli economisti ammettevano che in certe situazioni il mercato può fallire, soprattutto nel caso delle esternalità, cioè i costi che alcune persone impongono ad altre senza pagarne il prezzo (come il trafico o l’inquinamento). Ma il presupposto di base dell’economia neoclassica (così chiamata dai teorici del tardo ottocento che approfondirono i concetti dei loro predecessori) era che dovremmo avere fiducia nel sistema di mercato. Questa fiducia, però, andò in pezzi con la grande depressione. In realtà, anche di fronte a quel crollo alcuni si ostinavano a ripetere che qualunque cosa succeda nell’economia di mercato è per forza giusta. Ma la maggior parte degli economisti guardava alle intuizioni di John Maynard Keynes per avere una spiegazione di quel che era successo e cercare soluzioni per il futuro. Anche se probabilmente avrete sentito dire il contrario, Keynes non voleva
che il governo controllasse l’economia. Nella sua opera principale, La teoria generale
dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, del 1936, lui stesso definì la sua analisi ”moderatamente conservatrice nelle conseguenze che implica”. Voleva aggiustare il capitalismo, non sostituirlo. Però sfidò l’idea che le economie di libero
mercato possano funzionare senza una supervisione. In particolare criticava i mercati inanziari, che secondo lui erano dominati dalla speculazione a breve termine.
E sollecitava un intervento attivo del governo per combattere la disoccupazione nei periodi di congiuntura negativa. Keynes non si limitò alle affermazioni coraggiose, fece molto di più. La Teoria generale è un’opera ampia e profonda, un’analisi che i migliori giovani economisti dell’epoca trovarono convincente. Eppure la storia dell’economia dell’ultimo mezzo secolo è, in gran parte, la storia di un allontanamento dal keynesianismo e di un ritorno al neoclassicismo.
Il revival neoclassico è stato guidato all’inizio da Milton Friedman, dell’università
di Chicago. Per Friedman la teoria economica neoclassica descriveva abbastanza
bene il funzionamento dell’economia reale. Già nel 1953 la giudicò ”estremamente
feconda e meritevole di grande fiducia”. Ma allora come si spiegano le depressioni?
Il contrattacco di Friedman alle teorie keynesiane cominciò con la dottrina nota come monetarismo. I monetaristi in linea di principio non erano in disaccordo con l’idea che un’economia di mercato abbia bisogno di essere stabilizzata. ”Oggi ormai siamo tutti keynesiani”, disse una volta Friedman, anche se in seguito spiegò che la citazione era stata estrapolata dal contesto. I monetaristi sostenevano che per evitare le depressioni basta una forma di intervento pubblico molto limitata: le banche centrali devono governare l’offerta di denaro, la quantità di contante in circolazione e i depositi bancari in modo che crescano con costanza e regolarità. Friedman e la sua collaboratrice, Anna Schwartz, sostenevano che se la Federal Reserve avesse fatto il suo lavoro correttamente, la grande depressione non ci sarebbe stata. In seguito Friedman si batté contro qualunque iniziativa pubblica per portare la disoccupazione sotto il suo livello ”naturale” (che oggi negli Stati Uniti è calcolato intorno al 4,8 per cento). Secondo lui le politiche troppo espansionistiche avrebbero condotto a un intreccio di inflazione e alta disoccupazione. La stagflazione degli anni settanta confermò la sua previsione e rafforzò la credibilità del movimento antikeynesiano. Ma alla ine la controrivoluzione antikeynesiana andò molto oltre la posizione di Friedman, che in effetti oggi appare piuttosto moderata. Keynes disprezzava i mercati inanziari: li paragonava ai casinò. I nuovi economisti inanziari invece sostenevano la teoria dei ”mercati efficienti”, secondo cui i mercati attribuiscono alle varie attività il prezzo giusto in base alle informazioni disponibili. Nello stesso tempo, molti macroeconomisti rifiutavano completamente lo schema
keynesiano per spiegare le basse congiunture economiche. Alcuni le consideravano un elemento positivo che rientra nell’adattamento dell’economia ai cambiamenti.
Anche senza spingersi a tanto, altri sostenevano che ogni tentativo di combattere una crisi economica avrebbe fatto più male che bene.
Non tutti gli economisti erano disposti a seguire questa strada: molti continuavano a credere in un ruolo attivo del governo. Eppure anche loro accettavano l’idea di fondo che gli investitori e i consumatori sono razionali e i mercati hanno ragione.
Naturalmente queste tendenze avevano delle eccezioni: alcuni economisti contestavano il presupposto del comportamento razionale, mettevano in dubbio l’idea che ci si possa fidare dei mercati finanziari e ricordavano la lunga storia di crisi finanziarie che avevano avuto conseguenze devastanti. Ma nuotavano contro corrente.

L’economia del ketchup

Negli anni trenta, per ovvie ragioni, i mercati inanziari non godevano di grande rispetto: Keynes li paragonava a ”quei giochi organizzati dai giornali in cui i concorrenti devono scegliere i sei volti più belli tra un centinaio di foto e il premio viene assegnato al concorrente la cui scelta si avvicina di più alle preferenze medie dell’insieme dei giocatori. Il concorrente, quindi, deve scegliere non i volti che considera più belli, ma quelli che secondo lui hanno maggiori probabilità di attirare gli altri giocatori”. Keynes considerava una pessima idea il fatto che fossero i mercati inanziari, in cui gli speculatori passavano il tempo a rincorrersi, a imporre importanti decisioni economiche: ”Quando la crescita dei capitali di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che ci sia qualcosa che non va”. Intorno al 1970, tuttavia, il problema dell’irrazionalità degli investitori, delle bolle e delle speculazioni devastanti era di fatto scomparso dal dibattito accademico. Il campo era dominato dall’ ”ipotesi dei mercati efficienti” formulata da Eugene Fama, dell’università di Chicago, secondo cui i mercati finanziari fissano il prezzo delle attività inanziarie esattamente al loro valore intrinseco, date tutte le informazioni pubblicamente disponibili (il prezzo delle azioni di una società, per esempio, riflette sempre con precisioneil valore della compagnia in base
alle informazioni disponibili sui suoiprofitti, le sue prospettivefinanziarie e così via). E negli anni ottanta gli economisti finanziari, soprattutto Michael Jensen della Harvard Business School, sostenevanoche dal momento che i mercati indovinano sempre il prezzo giusto, la cosa migliore che i capitani d’industria possano fare, non solo per se stessi ma per il bene dell’economia, è massimizzare il prezzo delle loro azioni. In altri termini, gli economisti finanziari pensavano che dovessimo mettere lo sviluppo economico della nazione nelle mani di quello che Keynes aveva definito un casinò.
 difficile sostenere che questa trasformazione sia stata provocata dagli avvenimenti. vero, il ricordo del 1929 stava gradualmente svanendo, ma continuavano a esserci mercati al rialzo, con tante voci di eccessi speculativi, seguiti da mercati al ribasso. Nel 1973-1974, per esempio, le azioni persero il 48 per cento del loro valore. E il crollo del mercato azionario nel 1987, quando il Dow Jones perse quasi il 23 per cento in un giorno senza un motivo chiaro, avrebbe dovuto sollevare almeno qualche dubbio sulla razionalità dei mercati. Ma questi avvenimenti non riuscirono a smussare la forza di un’idea affascinante. Il modello teorico degli economisti finanziari basato sul presupposto che ogni investitore valuti razionalmente rischio e rendimento – il cosiddetto capital asset pricing model o capm – è straordinariamente elegante. E se ne accettate le premesse è anche molto utile. Questo modello non solo vi dice come selezionare il vostro portafoglio azionario ma, cosa ancora più importante dal punto di vista dell’industria finanziaria, vi dice come dare un prezzo ai prodotti derivati, la cartaccia della cartaccia. La nuova teoria era così elegante e utile che i suoi creatori si aggiudicarono una serie di premi Nobel, mentre molti suoi seguaci ricevevano premi più concreti: armati dei loro nuovi modelli e di formidabili competenze matematiche, quei rafinati professori
di economia diventavano i nuovi superesperti di Wall street e guadagnavano compensi degni del loro nuovo mestiere. Per correttezza bisogna dire che gli esperti di teoria finanziaria non accettarono l’ipotesi dei mercati efficienti solo perché era elegante, comoda e remunerativa. Trovarono anche molte prove statistiche che in un primo momento sembrarono confermarla. Ma queste prove curiosamente erano di un solo tipo. Chissà perché c’era una domanda che gli economisti non si ponevano quasi mai: i prezzi delle attività finanziarie hanno senso se si mettono in relazione con il mondo reale, cioè con gli utili? Invece si chiedevano solo se i prezzi delle attività avessero senso in rapporto ad altri prezzi di attività inanziarie.
Larry Summers, il principale consigliere economico dell’amministrazione Obama, una volta ha ironizzato sui professori di finanza raccontando la parabola degli ”economisti del ketchup”, che ”hanno dimostrato che le bottiglie di ketchup da 500 ml si vendono sempre al doppio esatto delle bottiglie di ketchup da 250 ml”, concludendo che il mercato del ketchup è perfettamente efficiente. Ma gli esperti di teoria della finanza continuarono a credere che i loro modelli fossero sostanzialmente giusti, e come loro la pensava tanta gente che prendeva le decisioni nel mondo reale. Alan Greenspan, all’epoca presidente della Fed e da sempre sostenitore della deregulation finanziaria, non ascoltò gli appelli a tenere a freno i prestiti subprime e ad affrontare la bolla immobiliare. Era convinto che l’economia finanziaria moderna avesse tutto sotto controllo. A ottobre dell’anno scorso, tuttavia, Greenspan ammetteva di essere in uno stato di ”sgomenta incredulità”, perché l’intero edificio intellettuale era crollato. Dal momento che questo crollo dell’ediicio intellettuale coincideva con il crollo dei mercati del mondo reale, il risultato era una grave recessione: la peggiore, secondo molti parametri, dai
tempi della grande depressione. Quale politica bisognava seguire? Purtroppo la macroeconomia, che avrebbe dovuto fornire una guida chiara su come affrontare
la crisi, era a sua volta nel caos.

Il problema della macro
’Ci siamo ficcati in un pasticcio colossale perché abbiamo sbagliato a gestire una
macchina delicata di cui non conosciamo il funzionamento. La conseguenza è che per un certo periodo, forse per molto tempo, le nostre possibilità di ricchezza potrebbero andare sprecate.” Così scriveva John Maynard Keynes in un saggio intitolato La grande recessione del 1930, cercando di spiegare la catastrofe che aveva colto di sorpresa tutto il mondo. Le possibilità di ricchezza di tanti paesi andarono davvero sprecate per molto tempo. Ci volle la seconda guerra mondiale
per mettere definitivamente fine alla grande depressione.
Perchè la diagnosi keynesiana della grande depressione come un ”pasticcio colossale” in un primo momento sembrò così convincente? E perché l’economia, intorno al 1975, si divise in due campi contrapposti sul valore delle idee di Keynes?
Io dico sempre che l’essenza dell’economia di Keynes si può spiegare con una storia esemplare, una versione in scala ridotta dei problemi che possono afliggere l’economia. la storia della cooperativa di baby-sitter di Capitol Hill. Questa cooperativa era un’associazione di circa centocinquanta giovani coppie che si erano messe d’accordo per aiutarsi a vicenda con i bambini quando qualcuno di loro voleva prendersi una serata libera. Per accertarsi che ogni coppia facesse la sua parte, la cooperativa introdusse una sorta di buono: dei tagliandi di cartone, ciascuno dei quali riconosceva il diritto a mezz’ora di babysitting. I soci della cooperativa ricevevano venti tagliandi al momento dell’adesione e dovevano restituirne altrettanti quando decidevano di lasciarla. Venne fuori che i soci della cooperativa, mediamente, volevano aumentare la riserva di tagliandi iniziali, nell’eventualità che decidessero di uscire per più sere di fila. E così, poche coppie volevano spendere il loro buono e uscire, mentre la maggior parte preferiva badare ai figli degli altri per aumentare il gruzzolo. Ma dal momento che per fare i baby-sitter bisognava che qualcuno uscisse, era difficile accumulare i buoni, e questo rendeva i soci della cooperativa ancora più restii a uscire, rendendo ancora più difficile accumulare i buoni. Per farla breve, la cooperativa entrò in recessione. Non liquidate questa storia come sciocca e scontata: gli economisti usano gli esempi in scala ridotta per spiegare le grandi questioni fin da quando Adam Smith individuò le radici del progresso economico in una fabbrica di spilli. La questione è se questo caso particolare, in cui la recessione è un problema di domanda insufficiente (la domanda di baby-sitter non è suficiente per dare lavoro a tutti quelli che lo vogliono) arriva al cuore di quello che succede durante una recessione.
Quarant’anni fa la maggior parte degli economisti avrebbe preso per buona questa interpretazione. Ma da allora la macroeconomia si è divisa in due grandi fazioni: economisti di ”acqua salata” (soprattutto nelle università della costa est degli Stati Uniti), che hanno una visione più o meno keynesiana di cosa sono le recessioni, ed economisti ”d’acqua dolce” (soprattutto nelle scuole dell’entroterra) che considerano questa visione un’autentica sciocchezza. Gli economisti d’acqua dolce sono, sostanzialmente, puristi neoclassici. Per loro ogni analisi economica deve muovere dalla premessa che le persone sono razionali e i mercati funzionano, una premessa smentita dalla cooperativa di baby-sitter. Nella loro visione, una mancanza generale di domanda suficiente non è possibile, perché i prezzi cambiano sempre in modo da far corrispondere domanda e offerta. Se le persone vogliono più buoni di baby-sitting, il valore di questi buoni aumenterà in modo che valgano, per esempio, 40 minuti invece di mezz’ora. Oppure il costo di un’ora di baby-sitting scenderà da due tagliandi a uno e mezzo. E questo basterebbe a risolvere il problema: il potere d’acquisto dei buoni in circolazione crescerebbe, la gente non sentirebbe il bisogno di aumentare il proprio gruzzolo e non ci sarebbe nessuna recessione.
Ma le recessioni non sono periodi in cui semplicemente non c’è abbastanza domanda per dare lavoro a tutti quelli che vogliono un impiego? Le apparenze possono ingannare, affermano i teorici d’acqua dolce. La scienza economica sana, secondo loro, dice che non possono esserci fallimenti della domanda effettiva,
e questo significa che non ci sono. Eppure le recessioni ci sono. Perché?
Negli anni settanta il maggior macroeconomista d’acqua dolce, il premio Nobel Robert Lucas, sostenne che le recessioni sono provocate da una confusione temporanea: lavoratori e società hanno difficoltà a distinguere i cambiamenti generali nel livello dei prezzi causati dall’inflazione o dalla deflazione e i cambiamenti
che intervengono nella loro particolare situazione economica. E qualunque tentativo dei governi di contrastare il ciclo economico sarebbe controproducente: aumenterebbe la confusione. Negli anni ottanta, poi, perfino l’idea che le recessioni siano una brutta cosa era riiutata da molti economisti d’acqua dolce. I nuovi leader del movimento, soprattutto Edward Prescott, che allora lavoravaall’università del Minnesota, sostenevano che le fluttuazioni dei prezzi ei cambiamenti della domanda in realtà non hanno nulla a che vedere con il ciclo economico. Invece il ciclo economico riflette le fluttuazioni del tasso di progresso tecnologico, che sono amplificate dalla risposta razionale dei lavoratori, i quali lavorano volontariamente di più quando l’ambiente è favorevole e meno quando è sfavorevole. La disoccupazione è una deliberata decisione dei lavoratori di prendersi un po’ di tempo
libero. Posta seccamente in questi termini, sembra una teoria assurda: la grande depressione in realtà fu una grande vacanza? In effetti, sembra davvero una sciocchezza. Ma la premessa fondamentale della teoria del ”vero ciclo economico” di Prescott si nascondeva dietro modelli matematici ingegnosi che erano collegati a dati reali usando complesse tecniche statistiche. La teoria arrivò a dominare l’insegnamento della macroeconomia in molte università. Nel 2004 Prescott ha ricevuto il premio Nobel insieme a Finn Kydland della Carnegie Mellon University.
Ma gli economisti d’acqua salata scalpitavano.
Mentre gli economisti d’acqua dolce erano dei puristi, quelli d’acqua salata
erano pragmatici. Studiosi come N. Gregory Mankiw ad Harvard, Olivier Blanchard all’Mit e David Romer all’università della California a Berkeley, ammettevano che era difficile conciliare con la teoria neoclassica una visione della recessione basata sulla domanda come quella di Keynes. Secondo loro, le prove a favore della tesi che le recessioni sono davvero provocate dalla domanda erano troppo convincenti per
essere rifiutate. Perciò erano pronti a deviare dal presupposto dei mercati efficienti o della razionalità perfetta o da entrambe, aggiungendo abbastanza imperfezioni da lasciare spazio a una visione delle recessioni più o meno keynesiana.
Nella visione d’acqua salata, inoltre, una politica attiva per contrastare le recessioni era senz’altro una buona idea. Ma questi sedicenti neokeynesiani non erano immuni dal fascino degli individui razionali e dei mercati perfetti. Cercavano di fare in modo che le loro deviazioni dall’ortodossia neoclassica fossero più limitate possibili. Di conseguenza nei modelli prevalenti non c’era spazio per cose come le bolle e il crollo del sistema bancario. Il fatto che nel mondo reale queste cose continuassero a succedere (nel 1997-1998 in gran parte dell’Asia e nel 2002 in Argentina) non si rifletteva nel pensiero neokeynesiano dominante.
In teoria gli economisti d’acqua salata e quelli di acqua dolce avrebbero dovuto scontrarsi di continuo sulla politica economica. A sorpresa, invece, tra il 1985 e il 2007 le polemiche tra le due correnti hanno riguardato principalmente la teoria, non l’azione. La ragione, credo, è che i neokeynesiani, a differenza dei keynesiani, pensavano che per combattere le recessioni non fosse necessaria una politica fiscale, cioè dei cambiamenti nella spesa pubblica o nelle tasse. Si accontentavano
di invocare interventi più efficaci da parte della Fed. E finché la politica macroeconomica era nelle mani di Greenspan, che non aveva programmi di stimolo di stampo keynesiano, gli economisti d’acqua dolce avevano poco di cui lamentarsi.

Imprevedibile

Nelle discussioni degli ultimi mesi, una delle frasi ricorrenti era: ”Nessuno avrebbe potuto prevederlo”. In realtà il disastro era stato annunciato. Prendiamo per esempio la bolla immobiliare. Alcuni economisti, in particolare Robert Shiller, avevano individuato la bolla e avevano previsto che se fosse scoppiata le conseguenze sarebbero state molto negative. Eppure i principali responsabili della politica economica hanno ignorato la realtà. Nel 2004 Alan Greenspan liquidò così ogni allusione alla bolla immobiliare: ”Una grave distorsione dei prezzi a livello nazionale è molto improbabile”. L’aumento dei prezzi delle case, disse Ben Bernanke nel 2005, ”è in larga misura il riflesso di basi economiche forti”.
Come hanno fatto a non accorgersi della bolla? I tassi d’interesse erano insolitamente bassi e questo poteva forse spiegare, in parte, l’aumento dei prezzi. Può anche darsi che Greenspan e Bernanke volessero celebrare il successo della Fed nel risollevare l’economia dopo la recessione del 2001: ammettere che quel successo dipendeva in buona parte dalla creazione di una bolla avrebbe guastato la festa. Ma c’era dell’altro: era la convinzione generale che le bolle semplicemente non esistono. Le rassicurazioni di Greenspan non si basavano su delle prove, ma sull’affermazione a priori che una bolla immobiliare non può esistere. Gli esperti di teoria della finanza erano ancora più categorici. In un’intervista del 2007 Eugene Fama, il padre dell’ipotesi dei mercati efficienti, spiegava perché potevamo fidarci del mercato immobiliare: ”I mercati immobiliari sono meno liquidi, ma le persone sono molto attente quando comprano una casa. Di solito è il più grosso investimento della loro vita, perciò si guardano intorno attentamente e confrontano i prezzi. La procedura di offerta è molto dettagliata”. In effetti, chi compra casa di regola confronta i prezzi con la massima attenzione. Confronta, cioè, il prezzo della casa che intende acquistare con quelli di altre case. Ma questo non ci dice se il prezzo generale degli immobili è giustiicato. di nuovo l’economia del ketchup: siccome una bottiglia da 500 ml costa il doppio di una da 250 ml, il prezzo del ketchup deve essere giusto. Ora che la bolla è scoppiata, è chiaro fino a che punto fossero rischiose attività finanziarie che venivano considerate sicure e quanto fosse fragile il sistema finanziario. Le famiglie statunitensi hanno perso 13mila miliardi di
dollari. Oltre sei milioni di posti di lavoro sono andati in fumo e il tasso di disoccupazione sembra destinato a raggiungere i livelli più alti dal 1940. Quale guida può offrire l’economia moderna nella situazione in cui ci troviamo?

La lite sugli stimoli

Tra il 1985 e il 2007 nel campo della macroeconomia ha regnato una falsa pace. Non c’era stata nessuna vera convergenza di opinioni tra le fazioni d’acqua salata e d’acqua dolce. Ma erano gli anni della grande moderazione, un lungo periodo durante il quale l’inlazione è stata tenuta a freno e le recessioni hanno avuto dimensioni relativamente modeste. Gli economisti d’acqua salata credevano che la Federal reserve avesse tutto sotto controllo. Quelli d’acqua dolce pensavano che gli interventi della Fed non servissero a molto, ma erano disposti a non smuovere le acque. La crisi ha posto fine a questa finta pace. Improvvisamente le politiche limitate e tecnocratiche che entrambe le parti erano disposte ad accettare non bastano più. E il bisogno di interventi politici più incisivi ha riportato sul tappeto i vecchi conflitti, più aspri che mai. Perché queste politiche limitate e tecnocratiche non bastano? La risposta è in una parola: zero. Durante una recessione normale, la Fed risponde comprando buoni del tesoro (debito pubblico a breve termine) dalle banche. Questo fa diminuire i tassi d’interesse sul debito pubblico: gli investitori
che cercano un rendimento più alto si spostano su altre attività finanziarie
spingendo verso il basso anche altri tassi di interesse, e normalmente i tassi di interesse più bassi alla fine portano a una ripresa dell’economia. La Fed ha affrontato la recessione cominciata nel 1990 abbassando i tassi di interesse a breve termine dal 9 al 3 per cento. Ha affrontato la recessione del 2001 portando i tassi dal 6,5 all’uno per cento. E ha cercato di affrontare la recessione attuale riducendo i tassi dal 5,25 per cento a zero. Ma zero, si è scoperto, non era un livello abbastanza basso per porre ine a questa recessione. E la Fed non può spingere i tassi sotto zero, perché con tassi vicino a zero gli investitori preferiscono mettere i soldi sotto il materasso. Così alla ine del 2008, con i tassi di interesse che sostanzialmente toccavano quello che i macroeconomisti chiamano zero lower bound (limite inferiore zero) e mentre la recessione continuava ad aggravarsi, la politica monetaria convenzionale ha perso ogni capacità di trascinamento.
E ora? la seconda volta che l’America arriva a un tasso vicino allo zero. La prima era stata ai tempi della grande depressione. E fu proprio l’osservazione che esiste un limite al di sotto del quale i tassi di interesse non possono scendere che portò Keynes a sostenere la necessità di una maggiore spesa pubblica: quando la politica monetaria è inefficace e il settore privato non si decide a spendere di più, il settore pubblico deve sostenere l’economia. Lo stimolo fiscale è la risposta keynesiana a una situazione economica depressiva come quella che stiamo attraversando. Questa concezione keynesiana è alla base delle politiche economiche dell’amministrazione Obama. E gli economisti d’acqua dolce sono furibondi: per venticinque anni hanno tollerato gli sforzi della Fed per dirigere l’economia, ma una vera e propria rinascita keynesiana è qualcosa di completamente diverso. Ammettere che Keynes aveva ragione su molte cose sarebbe una marcia indietro troppo umiliante.
Intanto, gli economisti d’acqua salata, che si erano consolati con l’idea che la grande spaccatura nella macroeconomia si stesse ricucendo, sono rimasti traumatizzati nel rendersi conto che gli economisti d’acqua dolce non li avevano mai
ascoltati. Come ha sottolineato Brad DeLong dell’università della California a Berkeley, la posizione attuale della scuola di Chicago equivale a un rifiuto in blocco non solo di Keynes, ma anche delle idee di Milton Friedman. Friedman credeva che per stabilizzare l’economia bisognasse usare la politica della Fed invece di intervenire con cambiamenti della spesa pubblica, ma non ha mai sostenuto che un aumento della spesa pubblica non può, in nessuna circostanza, aumentare l’occupazione. E Friedman sicuramente non ha mai condiviso l’idea che la disoccupazione di massa sia una riduzione volontaria dell’impegno lavorativo o che le recessioni siano un bene per l’economia. Eppure l’attuale generazione di economisti d’acqua dolce ha sostenuto tutte e due queste tesi. Casey Mulligan, di Chicago, suggerisce che la disoccupazione è così alta perché molti lavoratori scelgono di non accettare un posto di lavoro: ”I dipendenti hanno incentivi finanziari che li incoraggiano a non lavorare. La minore occupazione si spiega più con le riduzioni nell’offerta di manodopera (la disponibilità della gente a lavorare) e meno con la domanda di manodopera (il numero di dipendenti che i datori di lavoro hanno bisogno di assumere)”. Mulligan ha suggerito, in particolare, che i lavoratori scelgono di rimanere disoccupati perché questo aumenta le loro possibilità di vedersi riconoscere sgravi iscali sui mutui. E Cochrane dichiara che un’alta disoccupazione in realtà è un bene: ”Dovremmo avere una recessione. Le persone che passano la vita a battere chiodi in Nevada devono fare qualcos’altro”.
Personalmente, credo che sia una follia. Perché dovrebbe essere necessaria una disoccupazione di massa in tutto il paese per convincere i carpentieri a lasciare
il Nevada? Qualcuno può sostenere seriamente che abbiamo perso 6,7 milioni di posti di lavoro perché gli americani non vogliono lavorare? Ma era inevitabile che gli economisti d’acqua dolce finissero intrappolati in questo vicolo cieco: se partite dal presuppostoche le persone sono perfettamente razionali e i mercati perfettamente efficienti, dovete concludere che la disoccupazione è volontaria e le recessioni sono auspicabili. Oltre a spingere gli economisti d’acqua dolce a rasentare l’assurdo, la crisi ha provocato tormentati esami di coscienza tra gli economisti d’acqua salata.
Il loro schema, a differenza di quello della scuola di Chicago, ammette la possibilità di una disoccupazione involontaria e nello stesso tempo la considera negativa. Ma poiché i nuovi modelli keynesiani muovono dal presupposto che le persone siano perfettamente razionali e i mercati finanziari perfettamente efficienti, per far quadrare la loro teoria, i neokeynesiani sono costretti a introdurre un qualche fudge factor, un fattore di aggiustamento o di falsiicazione, che per ragioni non precisate deprime temporaneamente la spesa privata. E se l’analisi di dove siamo ora si basa su questo fudge factor, quanta fiducia possiamo avere nelle previsioni dei modelli che ci dicono dove stiamo andando? Lo stato della macroeconomia, insomma, non è buono. E allora che ne sarà degli economisti?

Errori e tensioni

L’economia, intesa come disciplina, è finita nei guai perché gli economisti sono stati sedotti dalla visione di un sistema di mercato perfetto, senza tensioni. Se vogliono
riscattarsi, dovranno rassegnarsi a una visione meno affascinante, quella di un’economia di mercato che ha molte virtù ma che è anche segnata da errori e tensioni. La buona notizia è che non dobbiamo ricominciare da zero. Persino quando l’economia dei mercati perfetti era in piena crescita, si è lavorato parecchio per capire in quali modi l’economia reale si discostava dall’ideale teorico. Quello che probabilmente succederà ora è che l’economia degli errori e delle tensioni passerà dalla periferia dell’analisi economica al centro della scena. C’è già un esempio abbastanza ben sviluppato del tipo di economia a cui mi riferisco: la scuola di pensiero nota come finanza comportamentale. Chi pratica questo approccio sottolinea due cose. In primo luogo, molti investitori del mondo reale somigliano ben poco ai freddi calcolatori della teoria dei mercati efficienti: sono troppo soggetti al comportamento del branco, a scoppi di esuberanza irrazionale e panico ingiustificato. In secondo luogo, anche quelli che cercano di basare le loro decisioni sul freddo calcolo scoprono spesso di non riuscirci perché i problemi della fiducia,
della credibilità e della garanzia limitata li costringono a seguire il branco.
La finanza comportamentale, che si rifà a un movimento più ampio, l’economia comportamentale, cerca di spiegare il comportamento irrazionale degli investitori collegandolo ad alcuni pregiudizi cognitivi, come la tendenza a interessarsi più delle piccole perdite che dei piccoli guadagni o la tendenza a estrapolare troppo facilmente da campioni limitati (per esempio immaginando che, poiché negli ultimi anni i prezzi delle case sono aumentati, continueranno a lievitare anche in futuro). Un secondo filone della finanza comportamentale, rappresentato da Andrei Shleifer di Harvard e Robert Vishny di Chicago, cerca invece di spiegare in che misura il comportamento irrazionale degli investitori incide sull’instabilità dei mercati inanziari.
Fino alla crisi, i sostenitori dei mercati efficienti come Eugene Fama liquidavano le prove fornite dalla finanza comportamentale come una collezione di ”curiosità” prive di valore. Ma è una posizione molto più dificile da sostenere ora che lo scoppio di una grossa bolla ha messo in ginocchio l’economia mondiale. La diffusione della crisi attuale sembra quasi una dimostrazione pratica dei pericoli dell’instabilità finanziaria. E le idee generali sottese ai modelli di instabilità finanziaria si sono dimostrate molto importanti per la politica economica attuale.
Nel frattempo, che dire della macroeconomia? Gli ultimi avvenimenti hanno smentito l’idea che le recessioni siano la risposta ottimale alle fluttuazioni nel tasso
di progresso tecnologico: una visione più o meno keynesiana sembra l’unica opzione plausibile. Eppure i modelli neokeynesiani standard non lasciavano spazio a una crisi come quella che stiamo vivendo, perché di solito accettavano una visione del settore finanziario che era quella dei mercati efficienti.

Tornare a Keynes

E così, ecco cosa penso che debbano fare gli economisti. In primo luogo devono accettare la scomoda realtà che i mercati finanziari sono ben lontani dalla perfezione, che sono soggetti a incredibili abbagli e alla irrazionalità della folla. In secondo luogo, devono riconoscere che l’economia keynesiana resta la migliore struttura a nostra disposizione per spiegare recessioni e depressioni. In terzo luogo dovranno fare del loro meglio per inglobare nella macroeconomia le realtà della finanza. Molti economisti troveranno profondamente allarmanti questi cambiamenti.
Ci vorrà parecchio tempo prima che i nuovi e più realistici approcci alla finanza e alla macroeconomia possano offrire quel tipo di chiarezza, completezza e squisita bellezza che caratterizza l’approccio neoclassico. Per alcuni economisti sarà un motivo suficiente per restare aggrappati al neoclassicismo. Sembra un buon momento, comunque, per ricordare le parole di H.L.Mencken: ”C’è sempre una soluzione semplice a qualunque problema umano: precisa, plausibile e sbagliata”.
E quando si tratta del problema fin troppo umano delle recessioni e delle depressioni, gli economisti devono abbandonare la soluzione, precisa ma sbagliata, di presumere che tutti siano razionali e che i mercati funzionino alla perfezione.
La visione che emerge ora può essere non del tutto chiara e sicuramente non sarà precisa, ma possiamo sperare che abbia il merito di essere almeno in parte giusta.