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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

Il capitalismo è vivo e lotta assieme a noi - Quando le crisi gemelle sono scoppiate a Wall Street e a Main Street, i populisti si sono scapicollati a celebrare il crollo del capitalismo e ad affondare i propri forconi nel cadavere che stava imputridendo per ottenere una maggior soddisfazione

Il capitalismo è vivo e lotta assieme a noi - Quando le crisi gemelle sono scoppiate a Wall Street e a Main Street, i populisti si sono scapicollati a celebrare il crollo del capitalismo e ad affondare i propri forconi nel cadavere che stava imputridendo per ottenere una maggior soddisfazione. Hanno avuto le loro dosi di champagne. Oramai, l’effervescenza è passata, comunque, e ci sono rimasti dei miti in cenci e degli errori grossolani che invitano ad effettuare un esame accurato e una confutazione. Mito n.1. La crisi è un momento di definizione come il crollo del muro di Berlino Non posso fare di meglio se non cominciare citando un illustre economista, che vorrebbe conficcare un paletto nel capitalismo e nella globalizzazione (che è vista, non senza una certa giustificazione, come un’estensione internazionale del capitalismo, poiché è difficile immaginare una globalizzazione economica vigorosa senza che vi sia il capitalismo alla sua base). Costui non è nessun’altro se non il mio collega della Columbia Joe Stiglitz. Ha preteso con molta convinzione che la crisi corrente fosse dovuta al capitalismo (e ai mercati) l’equivalente del crollo del muro di Berlino. Ora, sappiamo che tutte le analogie sono prive di fondamento. Ma questa è particolarmente fatua. Quando il muro di Berlino è crollato, abbiamo assistito al fallimento intellettuale sia delle autorità politiche comuniste sia dell’economia in senso più ampio, quasi universale, intesa come proprietà dei mezzi di produzione e di pianificazione centralizzata. Abbiamo visto un terreno incolto. Ma, quando Wall Street e Main Street sono state scosse dalla crisi, siamo stati testimoni di una pausa della prosperità, non di una fine alla devastazione. Avevamo goduto di almeno due decenni in cui le riforme liberali intraprese da quasi la metà della popolazione mondiale, in Cina ed in India, avevano prodotto una prosperità senza precedenti, con un impatto significativo sulla povertà, come sostenavamo noi riformisti. I paesi ricchi, con un’espansione costante delle politiche liberali negli anni cinquanta e sessanta, avevano anche registrato una sostanziale prosperità. Inoltre, un numero crescente di paesi poveri avevano abbracciato la democrazia. Ma le economie stagnanti o che crescono lentamente non possono salvare il povero dalla propria povertà in modo continuo. In paesi con povertà massiccia, come l’India e la Cina, la soluzione principale doveva essere fornita dalla rapida crescita dei salari e dei posti di lavoro. Semplice buon senso: così come aziende che sono in perdita non possono finanziare la responsabilità sociale d’impresa, paesi con situazioni economiche stagnanti non possono salvare il proprio popolo dalla povertà. Questa "strategia di crescita " per risollevare la povertà è stata da me descritta quindi come una strategia radicale, attivista, "che fa risalire", non come una conservatrice, passiva "che fa disperdere" . Dopo le riforme liberali economiche, hanno registrato tassi di accrescimenti accelerati ; ed infine questo ha tirato fatto salire quasi 500 milioni di persone sopra la soglia di povertà durante gli ultimi vent’anni. Per quanto sia stata cupa la crisi corrente, essa non può essere usata per negare e distruggere questa verità. Ma il destino del povero nei paesi ricchi è stato meno confortante? I sindacati sono convinti che il commercio con i paesi poveri ha prodotto indigenti nei paesi ricchi diminuendo i salari effettivi. Questa conclusione non è supportata da un’analisi empirica. La mia analisi, che è datata almeno di una decina di anni addietro (ed approfondita nel mio libro del 2004, Elogio della Globalizzazione), sostiene piuttosto che il calo negli stipendi che il cambiamento tecnico economico ed altri fattori istituzionali nazionali avrebbero determinato e sarebbero semplicemente stati moderati dagli scambi commerciali con i paesi poveri. Questa conclusione più positiva è stata riaffermata da Robert Lawrence della Kennedy School di Harvard per ciò che concerne gli anni più recenti. Così, né per la prosperità generale né per gli effetti sulla povertà nei paesi indigenti e per i salari dei bisognosi nei paesi ricchi, abbiamo ben donde di essere apologetici nei confronti delle politiche liberali e delle riforme compiute. Paragonare l’interruzione di primato notevole con il crollo del muro di Berlino è quindi come fare un parallelo tra uno tsunami terrificante ed un monsone che ha portato piogge ed un ricco raccolto in pianure inaridite. Mito n. 2. La fine del mercato del fondamentalismo I critici inoltre sostengono che la crisi costituisce la fine del "fondamentalismo di mercato". Ma il presupposto da cui questi critici partono è che noi eravamo nel centro pragmatico e ci siamo mossi verso il mercato fondamentali stico di destra, lasciando i mercati lacerati e mettendo noi stessi da parte. Questo è completamente sbagliato per la maggior parte del mondo, sicuramente per i paesi in via di sviluppo. Molti dei paesi in via di sviluppo hanno fatto parte di un "fondamentalismo anti-mercato" tale che vi era un’estrema ostilità nei riguardi dei mercati. Quando si sono resi conto che questo modello non stava funzionando e gli stava costando caro, si sono mossi verso il centro. La realtà è che ci siamo mossi negli ultimi anni, non dal pragmatismo al fondamentalismo di mercato come ci avrebbero voluto far credere Stiglitz e Soros, ma dal fondamentalismo anti-mercato al centro. Mito n. 3. La fine del "Washington Consensus" Un mito collegato, è l’idea che in un certo qual modo ci fosse un consenso a Washington, nelle istituzioni di Bretton Woods, che abbia portato il mondo verso riforme liberali che includevano il fondamentalismo di mercato. Ma chiunque abbia familiarità con le riforme economiche che vennero intraprese con entusiasmo in Unione Sovietica (e poi in Russia), in India e in Cina, che rappresentano una porzione enorme della popolazione mondiale, deve sapere che queste ebbero origine al loro interno. I riformatori in tutti questi paesi furono spinti dalla loro accresciuta consapevolezza del fatto che, senza queste riforme, avrebbero continuato a ristagnare. L’esperto russo Padma Desai ha scritto come Gorbaciov e Shevardnadze infine decisero che, senza riforme, il declino sovietico avrebbe continuato a peggiorare e una superpotenza si sarebbe ridotta a supermendicante nella politica mondiale. Tuttavia, a nessuno di questi riformatori importava cosa le istituzioni di Bretton Woods, o Washington più in generale, pensassero e sentissero. Il "Washington Consensus" è poco più che una presunzione di Washington, diffusa dapprima dai media occidentali e poi dai fondamentalisti anti-mercato ai quali l’antiamericanismo che suscita frutta più di quanto il contenuto della loro critica meriti. Mito n. 4. Il mercato mina la moralità. Inevitabilmente, la crisi di Wall Street ha risuscitato l’idea che il mercato mini la moralità. Oliver Stone sta pensando a un seguito del film del 1987, Wall Street, che immortalò Gordon Gekko come simbolo dei mercati e della brama di ricchezza. Questi critici credono che lavorare con e all’interno del mercato alimenti la nostra ricerca dell’interesse personale, l’avidità, la brama di ricchezza, l’egoismo in ordine crescente di turpitudine morale. Ma questa affermazione è certamente in contrasto con ciò che sappiamo su noi stessi. vero, il mercato influenzerà i valori ma, cosa ben più importante, i valori che sviluppiamo in vari modi influenzeranno il modo in cui ci comportiamo nel mercato. Consideriamo solamente il fatto che culture diverse mostrano forme diverse di capitalismo. I cittadini olandesi, di cui Simon Schama scrisse in The Embarrassment of Riches, usavano la loro ricchezza per affrontare il disagio della povertà. Loro e i giainisti del Gujarat, dai quali il Mahatma Gandhi trasse sicuramente ispirazione, e i seguaci di Giovanni Calvino, rivelavano tutti dei valori che derivavano dalla religione e dalla cultura per portare moralità al mercato. L’economista Andre Sapir ha evidenziato come le diverse forme di capitalismo che fioriscono nel mondo, negando la pretesa che il mercato determini del tutto ciò a cui diamo valore. Così, gli scandinavi hanno un approccio egualitario al loro capitalismo che differisce da ciò che troviamo negli Stati Uniti dove l’uguaglianza di accesso, piuttosto che di successo, è la norma. Come si reagisce, quindi, ai Madoff? Non rappresentano la corrosione dei valori morali nel mercato? Non proprio. I guadagni derivanti dal prendere scorciatoie, in verità furti belli e buoni, sono stati talmente enormi nel settore finanziario che coloro che sono disonesti sono naturalmente attratti verso questo settore. Non sono i mercati finanziari che hanno prodotto la disonestà di Madoff. Madoff era quasi sicuramente corrotto in primo luogo. Mito n. 5. L’ideologia riflessiva del collasso finanziario. Ancora un altro mito, almeno nel settore finanziario dove il collasso è iniziato, è che la crisi sia stata causata in maniera predominante dall’ideologia dei mercati e della deregulation, anziché da fattori quali le lobby di Wall Street che perseguono gli utili. 1. Estrapolazione infondata: naturalmente, il concetto che una maggiore libertà per i mercati finanziari e un aumento di fiducia nell’autoregolamentazione avrebbero prodotto ottimi risultati ha avuto un ruolo significativo. Il periodo post-bellico aveva dimostrato la potenza delle politiche di economia liberale nel commercio e negli investimenti esteri diretti. Ma è stato certamente infondato trasferire l’approvazione legittima di un commercio più libero proprio nel settore finanziario, estremamente più volatile, che rappresenta il ventre molle del capitalismo. Una semplice analogia basterà per illustrare chiaramente l’asimmetria in questione. Se io scambio alcuni spazzolini da denti con un po’ del tuo dentifricio, e tutti e due ci ricordiamo di lavarci i denti, i nostri denti saranno più bianchi e la probabilità che i nostri denti vengano spazzati via nel corso dell’operazione è trascurabile. Per i flussi di capitale, invece, l’analogia più calzante è il fuoco. Permette a Tarzan di arrostire la sua preda nella giungla, ma può anche ardere al suolo l’antico castello di Lord Greystoke in Inghilterra. 2. Il complesso Wall Street-Tesoro: dobbiamo però chiederci perché alcuni dei migliori economisti del mondo, come Larry Summers, si siano allineati quando in effetti non potevano non essere consapevoli di questa asimmetria.La mia risposta a questa domanda è ciò che ho chiamato il complesso Wall-Street-Tesoro. Il costante andirivieni di persone come Robert Rubin, ma anche figure minori se pur influenti, tra Wall Street e il Tesoro, ha innescato la condivisione dell’euforia per come i mercati al servizio degli interessi di Wall Street avrebbero funzionato altrettanto bene nel settore finanziario quanto in quello commerciale. Condivisione che si è realizzata tra persone che indossavano gli stessi abiti Brooks Brothers e appartenevano agli stessi club e agli stessi circoli. Ecco come gli economisti del Tesoro sono giunti ad abbassare la guardia e come le loro controparti ad alto livello nel Fondo Monetario Internazionale si sono aggiunte al coro per la libera circolazione dei capitali. 3. Lobby: una delle mosse determinanti che ha svolto un ruolo decisivo nella crisi è avvenuta quando i capi delle cinque grandi banche di investimenti, tra i quali il Segretario del Tesoro Hank Paulson, allora Ceo di Goldman Sachs, hanno "persuaso" la SEC a non porre requisiti di riserve sui loro prestiti. Ne è risultato un over-leverage avventato che ha accentuato la crisi quando è esplosa la bolla immobiliare e i mutui mobiliarizzati sono diventati titoli tossici. Ma in questo caso la lobby aveva come scopo il profitto, non l’ideologia. Hank Paulson era un laureato di Dartmouth, College famoso per le arti liberali; era notoriamente un ambientalista appassionato. Certamente non un ideologo dei mercati. 4. Sbagli del governo: ma perché la Sec ha acconsentito a questa richiesta? Si è trattato certamente di uno sbaglio. Il senatore Schumer è il rappresentante di New York e di conseguenza ha finanziatori di Wall Street nel comitato di attività politica; è noto per le sue proposte protezioniste nei confronti del Giappone, poi dell’India e ora della Cina: tutto per giocare a favore dei suoi elettori. Questa volta, ha creduto alla loro tesi secondo la quale Wall Street avrebbe perso rispetto a Londra se le richieste delle banche di investimenti non fossero state accordate. Quindi il suo ruolo è stato cruciale nella "corsa verso il fondo" al centro della crisi. Inoltre, il ruolo governativo nella crisi è stato reso evidente dal modo in cui i membri del Congresso di entrambi i partiti hanno condiviso la tesi che tutti, indipendentemente dalla loro situazione, debbano possedere una casa, incoraggiando così la diffusione di sconsiderati mutui sub-prime che hanno riempito la bolla immobiliare di quelli che sarebbero poi diventati titoli tossici. Gli Stati Uniti, invece di diventare una democrazia di proprietari di case, si lanciarono in un disastro certo che avrebbe messo a rischio l’economia. 5. "Creazione distruttiva" nell’innovazione finanziaria verso "distruzione creativa" nell’innovazione non finanziaria. Il confezionamento dei mutui sub-prime in obbligazioni di debito a garanzia reale è stato coniugato all’invenzione dei credit default swap (Cds) dei banchieri J. P. Morgan, facendo sì che terze parti come Aig si assumessero il rischio di default su queste obbligazioni in cambio di pagamenti regolari simili ad un premio assicurativo. Non era stato considerato lo tsunami scatenato dall’esplosione della bolla immobiliare e i mutui sub-prime sono crollati tutti insieme. La consolidata esposizione massiccia degli emittenti di Cds, effettuata senza predisporre riserve adeguate per proteggersi da uno tsunami simile, ha reso inevitabile il collasso del settore finanziario. In breve, pochi a Wall Street, presi dall’euforia per queste innovazioni finanziarie, hanno tenuto conto del fatto che l’innovazione finanziaria aveva lati potenzialmente negativi enormi e doveva quindi essere studiata attentamente predisponendo opportune misure di protezione. Siamo stati messi di fronte al fatto che, mentre l’innovazione non finanziaria, come ad esempio l’invenzione del Pc, richiederebbe ciò che Schumpeter chiamava "distruzione creativa" cosicché Olivetti e Ibm, che producevano macchine per scrivere ormai obsolete, sarebbero scomparse, nel caso dell’innovazione finanziaria l’invenzione di nuovi strumenti avrebbe possibili sviluppi negativi interamente diversi, che potrebbero risultare in ciò che io e giornalisti come Gillian Tett e Thomas Friedman da allora abbiamo chiamato "creazione distruttiva". L’innovazione nel settore finanziario deve quindi essere trattata in modo diverso dagli altri tipi di innovazione. Ho sostenuto perciò la necessità di un gruppo indipendente di esperti, che conoscano bene Wall Street e il complesso Wall Street-Tesoro, ma non ne facciano parte, per valutare i lati negativi dei nuovi strumenti e per eseguire analisi informate da mettere a disposizione dei legislatori. I legislatori, dopo tutto, non possono legiferare su ciò che non capiscono. vero che nessuno è in grado di prevedere tutto. Come notava Keynes nel suo modo caratteristico in una lettera a Kingsley Martin, l’editore di The New Statesman, «l’inevitabile non accade mai, si tratta sempre dell’imprevisto». Ma il comitato che ho proposto, che fa parte della nuova architettura di regolamentazione finanziaria in diverse versioni ora in discussione, dovrebbe riuscire a ridurre l’estensione dell’imprevisto. Chiaramente, la crisi dimostra che il settore finanziario, la linfa vitale del capitalismo, deve essere progettato accuratamente. Non condanna il capitalismo all’inceneritore della storia come spererebbero i critici.