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 2009  settembre 23 Mercoledì calendario

IL TIMONIERE HA LE MANI LEGATE


In tempi non certo lontani, l’approvazione della manovra finanziaria era il momento culminante dell’attività ordinaria del nostro Parlamento.
Lo occupava, letteralmente giorno e notte, con sedute interminabili, un susseguirsi di ostruzionismi, colpi di scena, «imboscate», dalla fine di settembre alla pausa natalizia; nobili programmi economici e meno nobili interessi di bottega si confrontavano e si scontravano in una vera e propria guerra a colpi di emendamenti fino alla vigilia di Natale quando i parlamentari esausti approvavano un documento quasi sempre molto diverso rispetto a quello originario e talora snaturato.
Quella che viene presentata quest’anno è una Finanziaria più che dimezzata, il cui testo consiste di appena tre cartelle e il cui ammontare (3-4 miliardi di euro) è circa un quinto delle manovre tipiche di questi anni, una lieve correzione rispetto alla strategia approvata a luglio nel documento triennale che diventa il punto di riferimento della politica governativa. Il che è un bene perché indica una manovra più coerente, meno influenzata da interessi immediati delle categorie e dei poteri locali, di singoli parlamentari. Dietro a questo risultato positivo emerge però una situazione di relativa impotenza del governo.
Il ministro dell’Economia è infatti come un timoniere con le mani legate: non può modificare la rotta - alla quale non mancano elementi di ragionevolezza - se non in qualche dettaglio. In primo luogo, non può proporre un aumento delle imposte ordinarie, se non in qualche nicchia, dal momento che tale aumento andrebbe contro non solo alla filosofia politica di questo governo ma anche, in un momento di crisi, alla logica economica. In secondo luogo, non può ricorrere ampiamente a nuovi debiti: è pressoché impossibile per l’Italia eccedere i livelli concordati in sede europea non tanto per un veto di Bruxelles, quanto perché sarebbe difficile raccogliere risorse finanziarie in grandi quantità sui mercati: l’Italia, che prima era uno dei principali emittenti di debito pubblico del mondo, è ora affiancata da Francia, Germania e Gran Bretagna, oltre che dagli Stati Uniti. Il mercato preferisce i titoli dei governi di questi Paesi, il cui debito attuale è molto più basso.
Infine, se è difficile aumentare il debito pubblico è ancora più difficile tagliare la spesa pubblica. I governi del nuovo secolo hanno cominciato scaricando brutalmente il peso dei tagli sugli enti locali, lesinando loro le risorse; questo governo ha affrontato il problema dei costi dell’amministrazione statale ma forse comincia a rendersi conto che, anche se gli obiettivi di maggiore efficienza e minor costo non sono affatto irragionevoli - pur se presentati spesso in maniera inutilmente provocatoria dal ministro per la Pubblica Amministrazione - non possono certo essere realizzati con la velocità del fulmine. La macchina burocratica ha i suoi tempi fisiologici, anche quello per la riduzione dei costi, che si valutano in anni, non in mesi o trimestri.
Il nostro timoniere non può quindi muovere il timone se non in maniera minima. E ricorre allora, non irragionevolmente, a manovre non convenzionali; agisce con imposte «una tantum» quali sono quella dello «scudo fiscale» e quella della regolarizzazione delle colf o ad azioni indirette che facilitano in vario modo la spesa delle famiglie, le quali, in un confronto internazionale, sono relativamente ricche e poco indebitate mentre lo Stato è relativamente povero e pieno di debiti. Ecco allora i bonus per l’acquisto di determinati beni di consumo e la detassazione permanente delle ristrutturazioni edilizie che avranno un’indubbia azione di stimolo sulla domanda interna.
Sono tutte cose sensate. Nulla potranno, però, sulla domanda estera, con le esportazioni scese del 20 per cento, il che da solo implica una riduzione della produzione italiana di quattro punti percentuali. Il governo potrà forse sostenere i consumi interni e rilanciare qualche investimento; non sarà in grado di intervenire sulle cause esterne, predominanti, della caduta produttiva.
Il governo potrà altresì tentare azioni indirette di rilancio «spendendo» la garanzia dello Stato nella speranza di non dover mai sopportare alcun esborso. Così di fronte a una crisi di nervi dell’opinione pubblica di fronte alla solidità delle banche, poco meno di un anno fa, l’estensione della garanzia pubblica sui depositi fu sufficiente a calmare gli animi.
Qualcosa di analogo potrebbe essere realizzato con l’emissione di fideiussioni, o altre analoghe forme di sostegno, per imprese che hanno difficoltà ad accedere al credito bancario: in Francia, la Caisse des dépôts, sulla quale si è modellata la nostra Cassa Depositi e Prestiti, svolge una simile funzione. Si tratta, in ogni caso di azioni minori. Diciamolo francamente: di fronte ai quasi 400 mila posti di lavoro perduti nel secondo trimestre di quest’anno, il governo non ha cure efficaci, come del resto non ne ha alcuna forza politica, tanto che si prevede che l’emorragia di posti di lavoro continui.
Il timoniere deve quindi rimanere fermo e aspettare che la tempesta passi, o meglio che i governi di altri Paesi riescano a farla passare. Lo stato di passività in cui si trova la politica economica italiana, con la sua incapacità a reagire agli stimoli negativi come fanno altri Paesi è il risultato di un lungo degrado dell’economia italiana, iniziato all’incirca quindici anni fa. La navicella Italia è lenta, segue la corrente e purtroppo è principalmente costretta a sperare nello «stellone» che ha spesso aiutato le vicende di questo Paese.