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 2009  settembre 23 Mercoledì calendario

LA BRUTTA GUERRA CHE L’AFGHANISTAN PUO’ ANCORA VINCERE


Ritorno in Afghanistan con un gruppo di giornalisti al seguito del ministro della Difesa Hervé Morin. Visione limitata poiché concerne solo le valli di Surobi e di Kapisa. Ma osservazioni tuttavia preziose perché in netto contrasto con quello che si sente dire quasi dappertutto.

Perché vale la pena di restare

Quello che si sente dire anche nel­­l’Italia ancora comprensibilmente turbata dalla tragica morte dei sei sol­dati a Kabul.

La prima tappa è Tora, un fortino appoggiato su un terreno di pietri­sco, a 20 chilometri da Kabul. Siamo accolti dal colonnello Benoît Du­rieux, un intellettuale, capo del reggi­mento e autore di un eccellente «Reli­re ’De la guerre’ de Clausewitz» (di­tions Economica, Paris 2005). Avan­ziamo verso Surobi, dove ci aspetta l’assemblea dei malek, i saggi della re­gione, per l’inaugurazione di una pic­cola scuola di ragazzi. Ci scambiamo discorsi sul tema dell’alleanza fran­co- afghana di fronte all’ascesa dei ta­lebani. Il numero di blindati mobilita­ti per lo spostamento, l’estremo ner­vosismo degli uomini, il volo raso terra, talora a 10 metri dal suolo, del­l’elicottero Caracal che ci ha portati qui di buon mattino, non lasciano dubbi sulla serietà della minaccia. Ma non ci sono dubbi nemmeno sul fatto che la strategia dei militari si ba­sa su un’idea semplice e che non ha molto a che vedere con la caricatura che ne danno i mass media: mostra­re, certo, che si è lì per fare la guerra, ma che questa guerra si propone an­che di portare sicurezza, pace, acces­so alle cure e al sapere, a un popolo che ha la coalizione come alleata.

Poi il forte Rocco, nel cuore della valle di Uzbin, 10 chilometri più a monte rispetto al punto in cui trova­rono la morte, nell’agosto del 2008, i dieci legionari francesi del Rpima (Reggimento di paracadutisti di fan­teria di marina). un altro forte da western, ancora più isolato, circonda­to dalle montagne. I 159 uomini del capitano Vacina alloggiano qui nelle tende, rafforzate da compensato in previsione dell’inverno. Appena in­stallati, racconta Vacina, ecco le ele­zioni, il bombardamento talebano dei seggi elettorali, la risposta delle forze regolari afghane appoggiate dai legionari: segue poi l’incredibile spet­tacolo dei contadini che vengono a votare nel frastuono di bombe e mi­tragliatrici.

Si tratta veramente di una forza d’occupazione? Di neocolonialismo, come dicono gli «utili idioti» dell’isla­mo- progressismo? Gli eserciti, come i popoli, hanno un inconscio. E non nego che la tentazione possa esiste­re. Ma quel che osservo, per il mo­mento, è questo: una forza militare che viene qui per consentire, letteral­mente, alla gente di votare e che quindi è presente, non meno letteral­mente, per dare rinforzi a un proces­so democratico.

Quindi Tagab, nel cuore della valle di Kapisa, dove ritrovo il colonnello Chanson che ancora si ricorda di quando, quindici anni fa, allora gio­vane Casco blu a Sarajevo, mi impedì l’accesso al monte Igman. Stessa con­figurazione che a Rocco. Stesso pae­saggio di montagne, con in basso una vallata verdeggiante ma infesta­ta da gruppi armati. Il forte è stato bombardato ieri. Due giorni prima, un attacco più duro ha provocato un’incursione. E Chanson racconta l’arrampicata verso la posizione av­versa; l’occupazione delle due creste della montagna; lo scontro, al ritor­no, con un’unità jihadista; il combat­timento, durissimo; e infine la disfat­ta degli assalitori. Il bilancio dell’ope­razione? Chiediamo. Il numero esat­to delle vittime? Appunto, sorride Chanson: «Qui, io sono, e resterò, l’unico a saperlo. Infatti, ecco un al­tro principio: per ogni talebano ucci­so c’è un nuovo talebano che nasce; ogni vittoria strombazzata provoca, automaticamente, umiliazione e ven­detta. Di modo che vincere non deve più significare uccidere ma restare, semplicemente restare: essere gli ulti­mi a rimanere in campo e mostrar­lo ».

E ancora Nijrab, sempre nella valle di Kapisa, 18 chilometri a nord. qui, in questo quarto forte, che è di stanza il terzo battaglione dell’eserci­to nazionale afghano, comandato dal colonnello Khalili. Ricordo che, nel mio «Rapporto afghano» del 2002 or­dinatomi da Jacques Chirac, la prima raccomandazione era: aiutare a costi­tuire un esercito nazionale afghano e lasciargli, appena possibile, la re­sponsabilità di isolare, poi mettere fuori gioco, i neofascisti talebani. Eb­bene, è quello che sta accadendo, se devo credere alle spiegazioni di Khali­li. Spetta a lui l’iniziativa degli assal­ti. lui che decide, o no, di richiede­re i rinforzi del battaglione francese. Ed è sotto il suo comando che si tro­vano i famosi «consiglieri» america­ni di cui mi parlava, poco prima, il co­lonnello americano Scaparotti. Di nuovo, il contrario del cliché. Di nuo­vo, l’inverso dell’immagine convenu­ta di una guerra franco-americana di cui gli afghani non sarebbero che le comparse.

Infine, Bagram, la base americana. Con la terribile prigione segreta, im­possibile da avvicinare, a 200 metri dal luogo in cui mi trovo. E con i 42 uomini del distaccamento francese Harfang, addetti stavolta ai due dro­ni Sidm, pilotati da terra dal persona­le navigante formato sui Mirage e che forniscono alle truppe qualsiasi informazione in grado di ridurre la parte di rischio delle operazioni. Im­magine di una guerra «tecnica», fon­data su un’estrema economia di mez­zi. Conflitto di «bassa intensità», la cui via d’uscita, ognuno ne è consape­vole, non può essere soltanto milita­re. E tendenza a «morti zero», tanto per l’avversario che per i soldati della coalizione stessa. Non ho visto tutto, naturalmente. Ma ho visto questo: una guerra brutta, come tutte le guer­re; ma una guerra giusta; che ha pre­so un verso meno negativo di quanto si dica, nonostante i drammi patiti dall’Italia e dagli altri Paesi dell’alle­anza; una guerra che i democratici af­ghani, con i loro alleati, possono vin­cere.

(traduzione di Daniela Maggioni)