Sergio Romano, Corriere della sera 23/09/2009, 23 settembre 2009
UN VENETO INDIPENDENTE NEL NOME DELLA SERENISSIMA
Ho letto con estremo stupore il suo intervento sull’indipendentismo che lei definisce come anacronistico morbo. Premetto, dunque, per correttezza: ne sono affetto.
Anzi, ne sono orgoglioso.
Quello che lei definisce «morbo», è un diritto fondamentale di ogni popolo su questa terra. il diritto all’autodeterminazione, il diritto, sacrosanto e riconosciuto anche da organi internazionali, di poter decidere in modo autonomo del proprio futuro. E se i fiamminghi o i baschi inseguono l’aspirazione ad autodeterminarsi, è doveroso rispettarla. La loro storia, il loro humus culturale ci impongono di considerare tale aspirazione degna di rispetto.
Nel nostro caso, molti veneti, sulla base di una millenaria repubblica, covano da anni la serenissima aspirazione di poter giungere a una piena autonomia decisionale, fiscale ed economica da Roma.
Quando, lo Stato italiano, così anacronisticamente fondato su paradossi storici come i plebisciti-burletta del 1866 (Montanelli docet), si porrà mai la questione di quando affrontare tale «morbo»?
Andrea Recaldin
andreaultras@yahoo.it
Caro Recaldin,
L’aspirazione contenuta nell’ultima parte della sua lettera (una piena autonomia decisionale fiscale ed economica) è quella che la Lega persegue da qualche anno sotto il nome di «federalismo fiscale » e che sembra essere ormai a portata di mano. Vedo anzi che nelle scorse settimane Giulio Tremonti ha più volte descritto il federalismo fiscale come la migliore delle risposte possibili al secolare problema della «dualità» italiana, vale a dire all’esistenza nella penisola di un forte divario economico e culturale fra il Nord e il Sud. Ma suppongo che lei, come molti baschi, fiamminghi e catalani, non si accontenti dell’autonomia. Lei vuole l’indipendenza o, per meglio dire, la restaurazione della gloriosa Repubblica di Venezia. So che esiste un orgoglioso patriottismo veneto ispirato dai ricordi della Serenissima. Ma vi sono almeno due ragioni per cui questa forma di nostalgia mi sembra contraddittoria e irragionevole.
contraddittoria perché Venezia, all’apice della sua fortuna, fu un piccolo impero multinazionale composto da veneti lagunari, veneti di terraferma, lombardi, friulani, trentini della valle dell’Adige, slavi della costa Adriatica, albanesi e greci delle isole. Fu una potenza marinara che poteva, nell’immaginazione di un grande scrittore, affidare la propria flotta a un moro senza per questo rinunciare a essere se stessa. La sua natura fu esattamente il contrario di quel piccolo municipalismo vernacolare e provinciale che mi sembra essere il carattere dominante del leghismo veneto.
La restaurazione è irragionevole poi perché il lungo declino di Venezia coincide con il suo progressivo arroccamento e isolamento. Nei due ultimi secoli della sua esistenza l’orgogliosa Serenissima era divenuta, grazie al suo carnevale, una sorta di Disneyland europea. Le confesso che mi è difficile provare la benché minima nostalgia per uno Stato che si chiuse in se stesso, fece dell’autoconservazione la ragione principale della propria esistenza e fu difeso, nel momento della sua morte, soltanto dai suoi cittadini slavi. Un’ultima osservazione, caro Recaldin, sui famigerati plebisciti del 1866. Come tutti i referendum di quegli anni, compresi quelli francesi per l’annessione di Nizza e della Savoia, anche quelli italiani furono manipolati e orchestrati. Ma non bisognerebbe dimenticare che l’analfabetismo veneto, dopo circa settant’anni di illuminata amministrazione austriaca, superava nelle campagne e nei villaggi il 70%.