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 2009  settembre 23 Mercoledì calendario

MENZOGNA AFGANA

Dobbiamo piantarla con la menzogna
che siamo in Afghanistan, oltre
che per portarvi una democrazia
di cui a quella gente non
importa nulla, per combattere il terrorismo
internazionale.
Gli afgani non sono mai stati terroristi,
tantomeno internazionali. Non c’erano
afgani nei commandos che abbatterono
le Torri Gemelle, non un solo afgano è
stato trovato nelle cellule, vere o presunte,
di Al Quaeda scoperte dopo l’11
settembre. C’erano arabi sauditi, yemeniti,
giordani, egiziani, algerini, tunisini,
ma non afgani. Nei dieci anni di durissimo
conflitto contro l’invasore sovietico
gli afgani non si resero responsabili di
un solo atto terroristico, tantomeno kamikaze,
né dentro né fuori dal loro Paese,
e se dal 2006 si sono decisi a ricorrere
anche a quest’arma all’interno di una
guerra di guerriglia è perché si trovano
di fronte a un nemico quasi invisibile che
usa prevalentemente aerei senza pilota,
ma armati di missili, telecomandati. Del
resto non si può gabellare una lotta di
resistenza che dura da otto anni, con
l’evidente appoggio di gran parte della
popolazione senza il quale non potrebbe
esistere, per terrorismo. Gli stessi Pentagono
e Cia, nei loro documenti, chiamano
i guerriglieri ”i n s u r ge n t s ", insorti.
Solo il ministro La Russa usa ancora il
termine "terroristi".
In Afghanistan all’epoca dell’attacco alle
Torri Gemelle c’era Bin Laden. Ma i taliban,
preso il potere, se l’erano trovati in
casa e, dopo gli attentati in Kenya e Tanzania,
era diventato un problema anche
per loro. Tanto che quando Clinton nel
1998, attraverso contatti discreti, propose
al Mullah Omar di uccidere lo sceicco
saudita il leader taliban si mostrò disponibile.
Inviò a Washington il suo braccio
destro, Ahmed Wakij, che incontrò il
presidente americano due volte, il 28
novembre e il 18 dicembre. Wakij propose
due alternative: o gli americani fornivano
missili per colpire lo sceicco oppure
sarebbero stati i taliban a dare agli
Usa le coordinate esatte del luogo dove si
trova Osama in modo che potessero centrarlo
a colpo scuro. Ma nell’un caso e
nell’altro la responsabilità dell’attentato
dovevano assumersela gli americani perché
Bin Laden in Afghanistan aveva costruito
ospedali, strade, ponti, godeva di
una grande popolarità presso la popolazione
e il governo taliban non poteva
assumersi la paternità del suo assassinio.
Stranamente Clinton declinò l’offerta
(Documento del Dipartimento di Stato,
agosto 2005).
In ogni caso Bin Laden è scomparso dalla
scena da anni. Si dice allora che, Bin
Laden o no, l’Afghanistan è tuttora la culla
del terrorismo quaedista, cioè arabo.
La Cia ha calcolato che fra i circa 50mila
"i n s u r ge n t s " ci sono 386 stranieri. Ma sono
uzbeki, ceceni, turchi. Non arabi. E poi
che interesse avrebbero i terroristi internazionali
a far base in un Paese presidiato
da 110mila soldati Nato, quando
potrebbero stare nello Yemen, dove c’è
un governo che li protegge, o mimetizzarsi
fra la popolazione in Arabia Saudita,
in Giordania, in Egitto per prepararvi
in tutta tranquillità i loro eventuali
attentati? Al Quaeda, ammesso che esista,
è una realtà del tutto marginale in
Afghanistan. Ma noi la prendiamo a pretesto
per continuare ad occupare quel
Paese.
Le altre motivazioni con cui cerchiamo
di legittimare la nostra presenza sono:
riportare la sicurezza e la stabilità nel
Paese, la lotta alla corruzione dilagante,
alla disoccupazione, alla droga.
 del tutto evidente che la situazione di
insicurezza e di instabilità è provocata
proprio dalla presenza delle truppe occidentali
perché quel popolo orgoglioso
e fiero, che ha cacciato inglesi e sovietici,
non tollera occupazioni, comunque mot
i va t e .
Stabilità e sicurezza ci sono state nei sei
anni del governo taliban. E qui bisogna
fare un passo indietro altrimenti non si
capisce niente né del fenomeno taliban
né di ciò che accade oggi in Afghanistan.
Dopo la sconfitta dei sovietici, i leggendari
comandanti che li avevano combattuti,
gli Ismail Khan, gli Hekmatyar, i Dostum,
i Massud, e i loro sottoposti, in
lotta per la conquista del potere, si erano
trasformati in bande di taglieggiatori, di
assassini, di stupratori che agivano nel
più pieno arbitrio. La crescita del movimento
taliban fu dovuta a questo. I
taliban, appoggiati dalla popolazione
che non ne poteva più di quei soprusi,
combatterono e sconfissero i "signori
della guerra" e li cacciarono dal Paese
riportandovi l’ordine e la legge, sia pure
un duro ordine e una dura legge, la sharia,
lontanissima dalla nostra sensibilità
ma accettata da larga parte di quelle popolazioni.
Nell’Afghanistan del Mullah
Omar, come mi ha raccontato Gino Strada
che vi ha vissuto, si poteva viaggiare
tranquilli anche di notte. In quell’Afghanistan
non c’era disoccupazione perché
il mullah, sia pur con qualche moderata
e mirata concessione all’industrializzazione,
aveva mantenuto l’economia di
sussistenza. Non c’era corruzione per il
semplice motivo che i taliban facevano
impiccare i corrotti. Infine dal 2000 non
c’era neppure più traffico d’oppio perché
il mullah aveva troncato la coltivazione
del papavero (si veda il diagramma
pubblicato dal Corriere il 12/6/2006: nel
2001, anno in cui rileva la decisione presa
nel 2000, la produzione di oppio crolla
quasi a zero, oggi l’Afghanistan produce
il 93% dell’eroina).
E allora cosa dovremmo fare? Sbaraccare
e "lasciare che gli afgani sbaglino da soli".
E invece restiamo. Le ragioni le spiega,
senza pudore, Sergio Romano sul Corriere
(19/9): gli Stati Uniti devono salvare
la faccia, i Paesi alleati mantenere il loro
"prestigio internazionale". E così per la
nostra bella faccia continuiamo ad ammazzare
uomini, donne, bambini afgani
a decine, forse a centinaia di migliaia
perché dei morti afgani nessuno tiene il
conto quasi che non avessero anche loro,
come i nostri "ragazzi", padri, madri,
spose, figli. Non sono morti uguali ai
nostri. Non appartengono alla "cultura
super iore".