Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 24 Giovedì calendario

CLAUDIO LINDNER PER L’ESPRESSO 24 SETTEMBRE 2009

La rimonta? Durerà 10 anni
Colloquio con Lorenzo Bini Smaghi L’Italia è in ritardo e la ripresa sarà più lenta che negli altri paesi. Che fare? Aumentare la produttività del lavoro. E accelerare sulle riforme, a partire dalle pensioni. Parola di eurobanchiere.

Nelle ore tormentate del dramma Lehman, domenica 14 settembre 2008, era alla sua postazione, nella trincea costruita al 34esimo piano dell’Eurotower di Francoforte. Assieme al presidente Trichet e ad altri membri del Comitato esecutivo della Bce. Scossi prima dal tam tam delle voci, poi sbigottiti e increduli davanti al comunicato ufficiale: la banca di Wall Street salta per aria. Che fare? Come preparare l’apertura dei mercati la mattina successiva, alzare una diga contro la sfiducia che poteva dilagare? Come limitare nuove follie azionarie? «Personalmente non credevo che avrebbero fatto fallire la Lehman, non me l’aspettavo», dice oggi Lorenzo Bini Smaghi, 53 anni, dal giugno 2005 al vertice dell’istituto che guida le strategie monetarie per l’euro: «Ero convinto, quella domenica, che avrebbero trovato una soluzione prima di notte». Invece no. E un anno dopo ancora ci si lecca le ferite di quel clamoroso crac americano. Economie Ocse in panne, tassi di decrescita anche molto elevati, boom di disoccupazione. E gli speculatori che rialzano pian piano la testa, come ha lasciato intendere lo stesso Obama durante il suo j’accuse al mondo di Wall Street, lunedì 14. In realtà, il partito degli ottimisti da qualche settimana sembra avere il sopravvento. Sostiene che ci sono diversi segnali di ripresa. Va a scartabellare tra i numeri: qui sale la produzione industriale, là si risveglia l’export, ma per ora ci vuole la lente d’ingrandimento per mettere a fuoco i segni "più". Il partito dei pessimisti ha un compito più facile. Suggerisce di aspettare l’autunno, con le fabbriche che chiudono e i lavoratori senza più lavoro, e fa presente che le regole della finanza allegra non sono cambiate e potremmo ripiombare in una nuova crisi. L’eurobanchiere italiano sfodera una tabella da far tremare i polsi. Il reddito pro capite medio dell’area euro registrato nel secondo trimestre di quest’anno è pari a quello del secondo trimestre del 2005 (in America si torna al terzo trimestre 2004). In soldoni, si sono persi quattro anni di ricchezza accumulata. Per l’Italia va molto peggio. Ne abbiamo divorati dieci retrocedendo al secondo trimestre del 1999.
Dottor Bini Smaghi, anche la Bce rileva segnali di ripresa. Ma quanto sono consistenti e credibili? E riprendendo il gioco sull’andamento dell’economia a W V U e L, sarà un rilancio lento o veloce e duraturo?
«Bisogna essere molto prudenti. Per ora ci sono segnali concreti che la caduta si è arrestata. Ma la ripresa sarà lenta e con grande variabilità. Ci sono fattori di rischio rilevanti, come il prezzo del petrolio, l’aumento della disoccupazione, i mercati finanziari turbolenti e l’erogazione del credito alle famiglie e imprese che rimarrà lento ancora a lungo».
Quando si tornerà ai livelli del Pil 2007?
«Questo è difficile dirlo. Oggi possiamo affermare con certezza quanto è stato perso nei diversi paesi. Per quanto riguarda l’Italia, se il passato dovesse riprodursi, si rischierebbe una rimonta lunga dieci anni perché esiste un problema non solo congiunturale, ma anche strutturale, di bassa crescita, che rimane immutato».
 possibile ipotizzare una ripresa vera finché ci sono tassi di disoccupazione così elevati? Cosa si può fare per creare lavoro in Europa?
«Questa crisi ha una dimensione ciclica ma anche una strutturale. Molte persone che lavoravano in settori che prima della crisi erano sovradimensionati non ritroveranno lavoro. Parlo di finanza, costruzioni, auto, delle migliaia di piccole e medie imprese che chiuderanno. Ci vorrà quindi tempo prima che la disoccupazione venga riassorbita. Non si potrà come in passato agire massicciamente sulla leva dei prepensionamenti, data la difficoltà delle finanze pubbliche in tutti i paesi. Si deve invece agevolare la transizione di chi ha perso lavoro verso altre occupazioni. Non è facile da fare senza un sistema di formazione e di riconversione del capitale umano ben strutturato e sperimentato».
Questo vale ancor più per l’Italia?
«Si è visto che il sistema in vigore prima della crisi non consentiva una crescita della produttività del lavoro in grado di sostenere salari crescenti. Per uscire dalla crisi l’Italia deve cambiare sistema e mettere al centro la produttività. Si parla oggi di compartecipazione agli utili. Un sistema remunerativo che leghi i salari alla produttività dell’azienda in parte raggiunge lo stesso risultato, senza richiedere modifiche della gestione aziendale».
Sulla ripresa pesa anche il debito pubblico, superiore a quello degli altri paesi.
«Purtroppo con questa crisi siamo tornati indietro di molti anni, con un debito prossimo al 120 per cento nel 2010. Per ridurlo si dovrà fare di più che in passato. Dopo la crisi del 1992 la riduzione del debito è avvenuta in gran parte grazie alle privatizzazioni, che ora non sono più disponibili, almeno nelle stesse dimensioni. C’è dunque un solo modo per riprendere la via del risanamento, che non è stata presa fino ad ora, la riduzione delle spese, a partire da quelle correnti. Dico di più: quando si otterranno dei "tesoretti" dovuti a entrate superiori al previsto, vanno dedicate alla riduzione del debito, piuttosto che ad aumentare le spese come è stato fatto in passato».
Sulle pensioni è stato fatto abbastanza, secondo lei?
«Su richiesta europea è stato compiuto il passo di equiparare agli uomini l’età pensionabile delle donne. In Italia si dovrebbe fare un ulteriore aggiustamento e aggiornare i parametri per allinearli a quelli della vita media che continua a crescere. Si tratta di una revisione importante da fare ogni cinque o sei anni. Si dovrebbe valutare l’ipotesi di alzare l’età pensionabile a 67 anni, come in Germania e in altri paesi dell’Ue. Ma non parlo solo di previdenza».
Quali le altre riforme da porre in agenda?
«Guardo al basso tasso di investimenti stranieri e al rischio che l’Italia continui a perdere attrattività. Bisogna risolvere il problema delle procedure burocratiche, che oggi sono troppo lunghe, e del sistema giudiziario, che non funziona. Ci sono riforme in via di definizione, fondamentali per dare certezza. E poi il sistema formativo?».
Scuole e università?
«Abbiamo perso tantissimo. I migliori laureati emigrano. Sarebbe necessario invertire la tendenza che vede pochi studenti in facoltà come matematica e fisica e tanti in lettere e scienze della comunicazione. Queste ultime sono le facoltà nelle quali si dovrebbe introdurre il numero chiuso per non creare nei giovani l’illusione di un lavoro soddisfacente».
Torniamo a temi più immediati legati alla ripresa. Alla Bce, in questo momento, fa più paura la deflazione dovuta alla caduta dei consumi o l’inflazione che potrebbe scaturire dai debiti pubblici?
«I rischi di deflazione sono diminuiti. Non ci sono peraltro rischi di inflazione immediati. Bisogna però essere consapevoli che la politica dei tassi d’interesse così bassi alimenta liquidità e favorisce la ripresa».
C’è molta attesa per il vertice G20 di Pittsburgh dove i capi di Stato e di governo dovrebbero delineare la cosiddetta "exit strategy", cioè come uscire dalla crisi. Cosa si aspetta lei?
«L’agenda dei lavori è in gran parte già realizzata, ci sarà consenso su una serie di principi generali. Sappiamo che si dovrà uscire dall’attuale politica espansiva, sia monetaria sia fiscale, e sappiamo anche quali strumenti mettere in atto per riassorbire la liquidità. Resta però la difficoltà di scegliere il momento opportuno, perché non è ancora chiara l’intensità e velocità della ripresa economica. necessario dare agli operatori e ai cittadini la fiducia che tale strategia sarà messa in atto al momento giusto, per evitare paure di inflazione o perdite di fiducia nei titoli pubblici».
Al G20 si parlerà anche di banche e stipendi. Ne scaturirà qualche decisione?
«Gli stipendi dei manager vanno legati ai risultati delle banche, su più anni. Bisogna legarli anche ai rischi presi dalle aziende stesse, per cui se la banca perde soldi anche gli stipendi si riducono». Quindi lei è d’accordo con la proposta del presidente francese Nicolas Sarkozy per una sorta di bonus-malus negli stipendi? «Sì, anche se non penso che dal G20 si esca con una proposta specifica sul tetto da applicare agli stipendi dei banchieri. Verranno piuttosto definiti criteri generali. Tra l’altro il problema non riguarda solo i bonus e gli stipendi dei banchieri, ma anche i rapporti tra la finanza e la politica».
Relazioni pericolose?
«Troppo spesso in passato la finanza ha finanziato la politica, ottenendo in cambio regole meno stringenti. Ci vuole anche trasparenza sulle modalità di finanziamento della politica e sull’operato delle lobby, soprattutto quelle finanziarie che dispongono di ampie risorse. Ora, con il ritorno delle banche al profitto, soprattutto in America, c’è il rischio concreto che esse mettano in campo un’enorme massa di denaro per bloccare la regolamentazione».
 d’accordo con il ministro Tremonti, secondo il quale i banchieri fanno poco per dare credito a famiglie e imprese?
«Il rischio di rallentamento del credito non è solo ora, dato che la domanda stessa è in calo, ma quando ci saranno segnali di ripresa e le aziende domanderanno credito per nuovi investimenti. Se il processo di riduzione della leva finanziaria sarà ancora in corso, potrebbe esserci il rischio che le banche non siano in grado di soddisfare tali richieste e così la ripresa potrebbe essere rallentata».
Sbagliano quindi i banchieri americani a restituire i soldi al Tesoro e quelli italiani a non accettare i cosiddetti Tremonti bond?
«Succede che gli azionisti delle banche non vogliono vedere diluito il proprio capitale e i manager non vogliono avere vincoli. Così, la rinuncia al capitale pubblico sembra una buona notizia. Ma non lo è nel medio periodo, perché il credito deve sostenere la ripresa e far ripristinare gli investimenti».