Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 24 Giovedì calendario

AGNESE CODIGNOLA PER L’ESPRESSO 24 SETTEMBRE 2009

Ho clonato una scimmia Il genoma di un primate è stato manipolato per creare un animale da laboratorio. Su cui testare terapie per molte malattie. l’esperimento choc di una scienziata giapponese. Colloquio con Erika Sasaki

Manipolare il genoma di una scimmia non è poi così diverso dal manipolare quello di un cittadino di Roma, Milano Brescia o Perugia. Noi siamo primati e mettere al mondo un primate, ancorché non umano, geneticamente modificato e in grado di trasmettere le modifiche alla prole è una sfida che nessuno fino a oggi aveva mai osato affrontare. Per le difficoltà tecniche, e per l’enormità bioetica del fatto. Perché, se già le Dolly o i maiali transgenici, creati per curarci o nutrirci al meglio, sono intollerabili per la morale di molti, figurarsi generare un primate, un nostro strettissimo cugino, per farne uno strumento della scienza. Eppure questo hanno fatto i ricercatori del Central Institute for Experimental Animals di Murasaki, in Giappone, guidati da Erika Sasaki, che si sono guadagnati la copertina di ’Nature’ con l’eloquente titolo: ’Biological Supermodel’.
Tecnicamente, i ricercatori giapponesi sono riusciti a inserire nel genoma di piccole scimmie chiamate marmoset, il gene di una proteina fluorescente, la Green Fluorescent Protein o Gfp, con un normale procedimento di fecondazione in vitro. La proteina aliena è stata così inglobata in modo casuale nel Dna dei cuccioli che, una volta diventati adulti, accoppiandosi l’hanno trasmessa alla seconda generazione, dando così il via a una vera e propria colonia di marmoset mutati. E, si chiedono in molti, se l’hanno fatto sui nostri cugini, quanto manca a una generazione di umanoidi modificati? Francamente parecchio, sul piano scientifico. Ma l’animale giapponese inquieta: di certo, l’intervento sul genoma dei primati eccita paure ancestrali, alimentate da decenni di letteratura e cinematografia, e la questione va al di là del merito scientifico, anche perché il risultato è stato ottenuto in Giappone, paese tutt’altro che propenso a discutere pubblicamente degli indirizzi della scienza, tanto all’interno quanto all’esterno dei suoi confini. Abbiamo chiesto alla stessa Erika Sasaki di raccontarci cosa sta succedendo nel suo paese e perché questa manipolazione genetica era inevitabile.
Professoressa Sasaki, secondo ’Nature’ in Giappone i ricercatori sono restii a parlare del proprio lavoro. E questo preoccupa la comunità scientifica. così?
"Partecipo sempre molto volentieri a dibattiti pubblici sul nostro lavoro, proprio perché mi danno l’opportunità di spiegarlo meglio. Purtroppo, però, in Giappone finora non ne è stato organizzato praticamente nessuno. Fatto che dimostra che, in effetti, probabilmente c’è ancora molto da fare da questo punto di vista".
Il vostro progetto rientra in un programma nazionale quinquennale che coinvolge otto università finanziate con cinque milioni di euro all’anno per sviluppare ’modelli animali altamente innovativi’ da impiegare nella ricerca. Qual è la strategia?
"Lo scopo di tutto il programma è quello di avere una colonia di primati con caratteristiche definite e in grado di crescere autonomamente, riproducendosi con metodi naturali (e quindi con tassi di riproduzione molto più elevati di quelli che si hanno con la fecondazione in vitro usata per i primi cinque cuccioli). All’interno di esso, ogni gruppo approfondisce un aspetto: per esempio, un team sta studiando approfonditamente le funzioni cognitive di questi primati al fine di mettere a punto test specifici da usare nello studio di diverse patologie neurodegenerative, un altro si sta concentrando sul controllo dei geni coinvolti nella vista, mentre un terzo vuole capire meglio la biologia di questi primati, ancora in parte da decifrare".
Modelli animali per lo studio delle malattie: ma in un’epoca in cui la tecnologia permette di ottenere organi artificiali e tessuti specializzati da cellule totipotenti, sono ancora utili?
"Certamente in un futuro abbastanza prossimo molti modelli animali saranno rimpiazzati da sistemi in vitro o del tutto artificiali, e noi saremo molto contenti quando ciò avverrà. Tuttavia, fino ad allora, gli animali e, in primo luogo i primati, resteranno lo strumento più vicino alla realtà dell’organismo umano, quello più completo. Inoltre: qualunque sistema artificiale, per quanto sofisticato, può essere molto utile per verificare l’efficacia di nuovi farmaci, ma non per stabilirne la sicurezza, perché solo un intero organismo vivente dà l’opportunità di controllare tutti i possibili effetti collaterali".
Per il vostro Supermodel avete scelto le marmoset, scimmie molto piccole, per diversi aspetti lontane dai primati più simili all’uomo e, secondo alcuni, utili solo in ambiti limitati?
"I marmoset hanno un periodo di maturazione molto breve: a un anno sono pronti per riprodursi e nell’arco della loro via possono dare vita a circa 80 cuccioli contro i dieci del macaco rhesus, fatto che rende questi ultimi non certo ottimali (e che finora ha impedito lo sviluppo di macachi transgenici). Inoltre sono facili da maneggiare e da allevare - nel nostro istituto c’è una grande colonia già dal 1967 - e sono già utilizzati come modello di studio di diverse malattie. Per questi motivi abbiamo deciso di impiegare le piccole scimmie del Nuovo Mondo, anche se indubbiamente esse non potranno essere usate per studiare tutte le malattie umane a causa di importanti differenze genetiche: per esempio, non sono indicate per le ricerche sull’Aids, la degenerazione maculare o la tubercolosi".
Quali sono gli studi che vi aspettate di poter fare?
"Sicuramente ricerche su ciò che riguarda l’efficacia, la sicurezza e in generale il metabolismo dei farmaci, molto simile a quello umano, a differenza di quanto accade per esempio con i topi. E poi studi nell’area delle neuroscienze, perché dei marmoset si possono analizzare il comportamento e alcune facoltà cognitive; in particolare, ci aspettiamo di arrivare a modelli di demenza di Alzheimer, di morbo di Parkinson, di sclerosi laterale amiotrofica, ma anche di malattie autoimmunitarie e di alcuni tipi di infezioni".
 ragionevole pensare che in futuro nei marmoset possano essere prodotte cellule staminali da impiegare in organi umani danneggiati quali un pancreas diabetico o un cuore colpito da un infarto?
"Se, come speriamo, la tecnica che abbiamo impiegato per introdurre nel genoma dei primati la GFP, con le opportune modifiche, funzionerà per trasmettere geni che riproducono diverse patologie umane, potremmo disporre di un modello da utilizzare per verificare anche le potenzialità delle cellule staminali, la loro efficacia, la loro sicurezza sul lungo periodo. I marmoset, del resto, sono già stati impiegati (anche da noi) per studiare l’effetto delle cellule staminali nelle lesioni spinali, anche se in quel caso non si trattava di animali modificati geneticamente, ma solo di marmoset cui era stata praticata una lesione. Per ora il nostro obiettivo, dunque, non è quello di creare staminali o cellule specializzate per uso umano, ma solo quello di avere un modello per lo studio delle malattie e delle possibili cure, staminali comprese".
Avete già provato a inserire nel genoma dei marmoset geni di proteine diverse dalla GPF, che cioè non si limitino a funzionare da segnalatori ma che riproducano una malattia umana?
"Al momento siamo impegnati a cercare di ottenere marmoset che esprimano la GFP soltanto nelle cellule nervose, passo fondamentale per almeno due obiettivi: studiare lo sviluppo del cervello senza metodi invasivi ma solo con la fluorescenza, per ridurre il numero di animali da sacrificare fino ad annullarlo, e mettere a punto una metodologia per la mutazione selettiva dei geni neuronali, per ottenere modelli di malattie neurologiche. Il metodo usato finora, così come il vettore scelto, un lentivirus, non permette infatti di sapere in anticipo dove il gene nuovo andrà a inserirsi perché il processo è dominato dal caso. Noi però, per sfruttare appieno le potenzialità del modello, abbiamo bisogno di avere una localizzazione ben precisa del gene che ci interessa; una volta che avremo raggiunto tale obiettivo, potremo iniziare a lavorare su specifiche patologie".
A proposito dell’utilizzo di animali in biologia e della possibilità di modificare il loro genoma, che cosa rispondete alle accuse degli animalisti, e come è orientata la legislazione giapponese in merito?
"Domanda veramente difficile. I nostri esperimenti sono tutti progettati ed eseguiti in base al più assoluto rispetto delle normative vigenti, improntate alla tutela degli animali e alle buone pratiche di laboratorio. Per ora, tuttavia, a differenza di quanto accade per esempio negli Stati Uniti, che hanno norme molto severe il cui risultato è stato, negli ultimi dieci anni, un lento avanzamento di studi analoghi solo sui macachi, in Giappone non esistono indirizzi specifici sui primati, e le decisioni sono demandate ai singoli comitati etici. Per quanto riguarda gli animalisti, ci sforziamo di parlare con loro ogni volta che è possibile, per instaurare un dialogo e spiegare il senso del nostro lavoro, che può essere travisato".