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 2008  agosto 01 Venerdì calendario

Luciano Bianciardi. Il Caffè illustrato n.42 maggio/giugno 2008 All’epoca dei primi festival di poesia in Italia, ricordo che un amico poeta ironizzava su quelle signore della buona società che si esaltavano evocando i poeti "maledetti" ("ah, Rimbaud!’ : se uno come Rimbaud si fosse loro presentato alla porta, disse, avrebbero di sicuro chiamalo la polizia

Luciano Bianciardi. Il Caffè illustrato n.42 maggio/giugno 2008 All’epoca dei primi festival di poesia in Italia, ricordo che un amico poeta ironizzava su quelle signore della buona società che si esaltavano evocando i poeti "maledetti" ("ah, Rimbaud!’ : se uno come Rimbaud si fosse loro presentato alla porta, disse, avrebbero di sicuro chiamalo la polizia. Mi è venuto in mente questo aneddoto a proposito della (tardiva) ricezione all’opera di Luciano Bianciardi. L’anticonforrmismo, per non dire il dissenso, non è infatti una specialità italiana. Al massimo è un anticonformismo teleguidato e prevedibile, ben remunerato e integrato. Per questo, di fronte al coro di tributi in memoria di Luciano Bianciardi, il grande scrittore grossetano morto prima di compiere quarantanove anni nel 1971, già in occasione dell’uscita del primo volume dell’’Antimeridiano (a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, edito da Isbn ed Ex Cogita), che raccoglie i suoi principali romanzi e i primi scritti, mi sono chiesto se molti di coloro che oggi lo lodano sui media farebbero lo stesso se lo avessero avuto davanti a sé. Bianciardi, che finora era stato oggerro dì una bella biografia di Pino Corrias ( Vita agra di un anarchico) e di un saggio critico di Giancarlo Ferretti, non è solo un narratore beat, rarità per l’Italia (non a caso tradusse, tra gli altri. Henry Miller), ma anche tra i pochi spiriti autenticamente e dolorosamente liberi che abbia attraversato le nostre lettere. Risulta quindi difficile conciliare la quasi unanimità delle lodi col riconoscimento che Bianciardi sia stato un eretico che ha sfidato i principali tabù che fondano tuttora il consenso nella nostra società: la famiglia (che lasciò per una convivenza a Milano con Maria Jatosti), il sesso, il denaro (parlarne, e parlare della sua penuria, è ancora oggi considerato più osceno del sesso), il lavoro (tema della trilogia che culmina nel 1962 ne La vita agra, preceduta da Il lavoro culturale, 1957, e l’Integrazione, 1960), l’editoria, la politica, il successo, e perfino il Corriere della Sera (rifiutò l’invito di Indro Montanelli a pubblicarvi, dicendo che non faceva per lui; poi si mise a scrivere sul Guerin sportivo). Passò dalla parodia del terrorismo, la vendetta a suon di bombe da mettere al "Torracchione" di Milano, ovvero la sede della Montecatini, responsabile della strage di minatori maremmani con lo scoppio di un grisù (non quindi il Pirellone, come mostrava il film che Carlo Lizzani trasse da La vita agra), all’espressione della consapevolezza che l’unica rivoluzione possibile, l’unico cambiamento, può e deve avvenire "in interiore homini". Cioè nelle coscienze. Quando uscì il primo Antimeridiano si era appena finito di parlare di dono "profetico" nel trentennale della morte dell’eretico Pier Paolo Pasolini, colui che definì il consumismo barbarie. Dove "profezia", naturalmente, significa estrema attenzione ai segni del presente e al loro valore di germi del futuro. Ma a rileggere Bianciardi (o a leggerlo di corsa, per chi non lo avesse ancora fatto) si rimane turbati dall’anticipazione cruda e consapevole dell’infelicità esistenziale e politica in cui ci dibattiamo oggi. La vita agra contiene e sviluppa letterariamente la consapevolezza che la vita non è senza senso perché miserevole (e quindi migliorabile secondo i progressismi incrociati di destra e di sinistra), ma è miserevole proprio perché senza senso, e questa sua insensatezza non è data fatalmente dal "mondo della tecnica", come discettano i Filosofi, ma dalla logica del profitto, capace di estirpare ogni senso anche in chi ne tira le redini (che è poi la vera definizione di "vita flessibile" o precaria: anche i manager "tagliatori di testa" hanno prima poi la testa mozzata). Ecco, Bianciardi ha parlato di ciò di cui ancora oggi è difficilissimo parlare: il lavoro, i soldi, il bisogno economico, l’alienazione, la vita ontologicamente precaria, e soprattutto quell’evidenza delle cose e della vita la cui enunciazione è agli antipodi del linguaggio e dell’agenda della politica, e spesso oggi paradossalmente delegata ai comici. Prendete questa frase: "La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. E la lotta politica, cioè la lotta per la conquista e la conservazione del potere, non è ormai più – apparenze a parte – fra stato e stato, tra fazione e fazione, ma interna allo stato, interna alla fazione" (da La vita agra). Prendete quest’altra, da un suo articolo del 1959, "L’alibi del progresso": "E’ giusto organizzare convegni sull’impicgo del tempo libero, con due milioni di italiani che non hanno lavoro, e più ancora che lavorano sei mesi all’anno?". Ed ecco come Bianciardi descrive quarantacinque anni fa la "società del benessere": "La gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare, e che per di più "si sentono privilegiati": "neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera per comprarsi quello che credono di desiderare; in realtà quel che al padrone piace che si desideri". A quell’epoca la pubblicità era ai suoi albori, e nessuno si faceva il lifting al volto. Eppure Bianciardi presagiva che le leggi estreme del consumismo e la società dello spettacolo si sarebbero estese e avrebbero modellato la società italiana: "Se continua il miracolo, fra vent’anni tutta l’Italia si ridurrà come Milano". Quello che in America enunciavano poeticamente Miller, Kerouac o Ginsberg, contro la spirale annichilente del "produci-consuma-crepa", Bianciardi lo diceva con realismo, descrivendo la condizione che è oggi la nostra; quella che un filosofo recentemente scomparso, Gilles Chatelet, ha chiamato: "Vivere e pensare come porci". Il suo Moloch che fagocita ogni critica e annulla ogni avversario è l’esperienza precoce del "miracolo" economico italiano, dove nella futura capitale "da bere" nascono anche i pretesi luoghi di conflitto culturale e politico, come quclla "grossa iniziativa" descritta ne L’integrazione, ovvero la fondazione della casa editrice Feltrinelli, cui Bianciardi partecipa con iniziale entusiasmo e da cui sarà licenziato per "scarso rendimento" - in realtà, scrive, perché "strascicava i piedi" quando camminava. Il "sistema" cattura e assimila (integra) anche chi si oppone, in un’accelerazione della velocità e dell’effìcienza che segna la disumanizzazione di ogni ambito della vita sociale. L’amaro apprendistato avvenne nella Milano degli anni tra i ’50 e i ’60 del Novecento, all’epoca (l’epica) dei primi precari intellettuali, i collaboratori esterni, i lavoratori "cognitivi", come si dice oggi, cioè occasionali, terziari, anzi, scrive Bianciardi, i "quartari", che "non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione,. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura". La centralità del tema del lavoro – e non solo il "lavoro culturale" – fa di Bianciardi un precursore degli attuali narratori che, dopo anni di silenzio (né la letteratura né il cinema, per anni, hanno più raccontato il mondo del lavoro), mostrano gli invisibili luoghi in cui si svolge concretamente la maggior parre del tempo, ancorché flessibile e precario, della vita umana. Ma c’è un altro aspetto della prosa di Bianciardi da mettere in evidenza - e a parte i bellissimi romanzii sugli aspetti più "resistenziali" del Risorgimento italiano, raccolti nel secondo volume dell’ Antimeridiano (per esempio, Le cinque giornate di Milano), con cui stroncò le aspettative di un mercato editoriale che desiderava altri romanzi anarchici e ribelli. Parlo della forma, che anch’essa sfida ogni censura. Come la sua insistita soggettività, il ricorso a un io incarnato ma lontano dall’aucobiografismo, e che anzi, tanto più riflette le proprie personali, "provinciali" esperienze, tanto più si fa univcrsale: un io per gli altri. Perché, si sa, provinciale, in senso deteriore, è chi non sa raccontare la propria storia, e vive di modelli importati. Bianciardi fu esattamente il contrario. Ancora a proposito della forma, ricordo l’anarchica, in senso soprattutto etimologico, libertà di passare da un piano all’altro, dalla riflessione al racconto e ritorno, come quando, da una meditazione sul camminare lento (strascicare i piedi contro l’efficienza dei milanesi, che lo condurrà addirittura ad essere arrestato), procede all’analisi politica del lavoro. Infine il suo lavoro (invisibile perché perfetto) sulla lingua, che lo fa aderire ogni volta a ciò di cui parla, in un ventaglio di stili che va, per esempio, da Giorgio Manganelli a Henri Miller. L’effetto satirico della sua prosa (anch’esso, quanto anticipatore dell’oggi!), si incontra con l’assoluta serietà delle sue intenzioni, forse anche troppo per il nostro Paese. Insomma, un "provocatore". Chi altri prima di lui avrebbe scritto una biografia dei minatori maremmani morti per sottrarli all’anonimato, in un percorso letterario a ritroso, da personaggi a persone? Siamo sicuri che egli sia così facilmente integrabile nella borsa valori dei nostri media, della società letteraria, dei canoni estetici e politici dell’Italia di oggi? Beppe Sebaste