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 2008  maggio 07 Mercoledì calendario

La Stampa, mercoledì 7 maggio 2008 Israele è un istituto psichiatrico senza fine, con dei pessimi terapeuti e dei pazienti che fuggono ognuno dal proprio esilio, da una tragedia diversa

La Stampa, mercoledì 7 maggio 2008 Israele è un istituto psichiatrico senza fine, con dei pessimi terapeuti e dei pazienti che fuggono ognuno dal proprio esilio, da una tragedia diversa. La maggior parte di noi ha perso, per sfinimento, la speranza in una qualunque soluzione: non si fa che aspettare, arresi, la prossima guerra. I pochi di noi che non sono ancora sprofondati nel pessimismo indifferente, soffrono peraltro di rosee visioni e credono in magiche, infantili soluzioni a questo triste stato delle cose. Il tutto, poi, avviene nel torrido clima del deserto, dove l’aria è immancabilmente carica, esplosiva, violenta. Verrebbe da dire che vivere qui è un inferno: può darsi. Ma la verità è che per chi scrive, per chi crea, questo è un paradiso. E’ talmente un paradiso che comincio a pensare di esserne diventato dipendente: persino da turista, mi sento a mio agio solo in posti dove l’aria è così, sul punto di scoppiare. Ho pure scoperto che il mio senso dell’umorismo si attiva soltanto se racconto storie tremende. E che non sono capace di immaginarmi a vivere altrove. Tel Aviv è un posto strano. Gli autobus non possono viaggiare di sabato per ordine delle autorità religiose, ma le coppie omosessuali girano per strada mano nella mano a testa alta. Nei locali, gay palestinesi ed ebrei ballano insieme, al riparo dentro la bolla di pace dell’emarginazione, e abbiamo persino spedito il trans Coccinelle in eurovisione. La persona più eccentrica e atipica, quella più emarginata e socialmente respinta, arrivando a Tel Aviv si sente a casa come non mai. Si sente un re. Le spiagge dorate sono piene di persone gentili, affamate di contatto umano. Mentre sono sedute in un caffè alla moda, non pensano ai missili che ogni sera cascano a venti minuti di distanza da qui, da noi; non pensano alla sofferenza e alla povertà. Vanno piuttosto a manifestare contro qualche taglio d’alberi, o la chiusura di un cinema. Ma sullo stato delle cose hanno smesso di protestare. Per me la scrittura sta in due parole: toccare e convincere. In sostanza, più che per autoterapia, per l’immenso, intimo piacere che comporta l’atto in sé, io scrivo perché ambisco influenzare colui che vive qui con me, su questa nostra piccola terra, e condivide i miei stessi problemi. Costui abita proprio dietro la cinta del mio cortile, eppure noi due non abbiamo quasi mai un dialogo. Noi non siamo un unico popolo, siamo dodici scomposte e isolate tribù, diffidenti e intimorite a vicenda. Che si chiudono a riccio di fronte a colui che è diverso. E’ a tutti costoro che io cerco di scrivere. Allora, cosa faccio per farmi ascoltare? Realismo magico. Entro nel triste teatro (che sia una guerra, la vita di una puttana dodicenne o qualunque altro fosco scenario), armato di una lente rosata che metto sopra la mia macchina fotografica. Se mi presentassi cupo o combattivo, non mi ascolterebbero. Solo la lente rosea, solo quel poco di dolcezza carezzevole, di sentimentalismo e fragilità, solo tutto ciò induce il lettore a spogliarsi, a levarsi di dosso la propria pelle e starmi di fronte tutto nervi scoperti, perché solo quando è così, il contatto brucia davvero. Io del resto mi spoglio davanti a loro. Quando scrivo le loro voci, ebbene mi innamoro di loro, della ricerca in sé, e imparo, striscio sotto la loro pelle e mando in frantumi i pregiudizi sui quali sono stato educato. I nostri pregiudizi l’uno verso l’altro sono il blocco fondamentale che frena la pace. Per scrivere debbo camminare per questo scombinato paese, debbo amarlo fino alla follia, debbo sentire un sottofondo sonoro frastornante cui adeguare il mio ritmo cardiaco, e allora a volte succede la magia: mi vengono le lacrime agli occhi, per via del casino. E a forza di cercar di non scoppiare a piangere, scoppia fuori una storia. Nel mio romanzo Tredici soldati ho cercato di descrivere che cosa significa avere 18 anni in Israele, e che cosa può succedere a lasciare un gruppo di adolescenti in una sorta di isolamento nazionale infantile, in un territorio scollegato dalla società normale, una impossibile pentola a pressione senza nessun adulto responsabile, in un posto dove loro fondano una sorta di regno autonomo con una loro lingua, false credenze, regole, humour. Una minuscola gabbia di cemento in mezzo a quella giungla insidiosa che è un territorio nemico, insomma un test psicologico sui generis. La scenografia è la guerra, un concerto di suoni e voci e odori e sentimenti che esaspera caratteri e debolezze, istinti e paure. Nel processo di indagine che ha accompagnato la scrittura, ho scoperto che cinque anni dopo il loro ritorno dalla battaglia, molti di quei giovani dicono «ci hanno mandati a morire e basta», «è stato tutto inutile», ma al tempo stesso hanno nostalgia della guerra e ne parlano con un tono venato di malinconia romantica. Così, ho cercato di venirne a capo, di capire come si possa nutrire rimpianto per una cosa così spaventosa. Dove sta il segreto? Sono sempre stato un bambino timido, introverso, riflessivo. Non mi ficcavo mai in situazioni che presentassero il rischio di perdere il controllo: niente sbronze, escandescenze, dipendenze, mai nessuna situazione imbarazzante. Un bravo ragazzo, insomma. Non ho fatto il militare in un’unità da combattimento. Non ho mai calpestato il fango misto a neve del Libano. Non sono abbronzato e nemmeno nero. Non sono morto di paura sotto i missili. Non ho mai provato la vera solidarietà dei combattenti. Non ho mai parlato così sboccato. Coloro che combattevano al fronte erano diversi da me. Per lo più venivano da famiglie povere, deboli, di periferia, o erano nuovi immigrati ansiosi di un biglietto d’ingresso nella società israeliana. Ansiosi di sentirsi parte, di rendersi utili, importanti. Nei primi decenni dello stato d’Israele eravamo fieri del fatto che Tzahal fosse l’esercito di tutti, che tutti i cittadini facessero il servizio militare allo stesso modo, prendendo parte alla guerra per la difesa e la sopravvivenza. Nell’ultimo decennio tutto ciò l’abbiamo perso: il 35% dei ragazzi nati negli anni Ottanta non fa il servizio militare a dispetto della sua obbligatorietà. Partono i più deboli. Io e le persone come me li mandiamo laggiù a morire per noi, senza farci sempre abbastanza domande, mentre li vediamo partire. Ammetto, con molto dolore, che non mi era mai passato per la testa di sbirciare nelle loro vite, di cercar di capire le piccole pornografie private di una quotidianità dentro una postazione militare a rischio, un rifugio soffocante. Non mi ero mai posto delle domande, sinché non le ho incontrate per caso, senza alcuna intenzione. Allora ho capito quanto non capisco e non so. Solo allora, me la sono presa con me stesso e ho cominciato a indagare. E ho scritto. Ron Leshem **** Ron Leshem è nato a Ramt Gan, vicino a Tel Aviv, nel 1976. Giornalista, si è rivelato con una serie di articoli sull’Intifada. Nel 2005 ha pubblicato Tredici soldati (editore Rizzoli), da cui Joseph Cedar ha tratto il film Beaufort premiato con l’Orso d’oro a Berlino. Leshem sarà alla Fiera venerdì alle ore 19, ha scritto per La Stampa l’articolo che pubblichiamo.