Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  maggio 07 Mercoledì calendario

L’esordio dei piccoli boss italiani. Corriere della Sera, mercoledì 7 maggio 2008 Milano. Agli italiani della periferia marcia ogni tre giorni cambiano l’antenna della televisione, ché le sfasciano e le fanno a pezzetti

L’esordio dei piccoli boss italiani. Corriere della Sera, mercoledì 7 maggio 2008 Milano. Agli italiani della periferia marcia ogni tre giorni cambiano l’antenna della televisione, ché le sfasciano e le fanno a pezzetti. Ci ricavano gli aghi per tatuarsi scritte d’amore («Sei unica»), pentimento («Mamma perdonami»), e orgoglio, devozione e appartenenza verso i boss di quartiere, quelli spazzati via dalle super-inchieste degli anni Ottanta e Novanta, e poi usciti di galera, tornati a casa invecchiati e appesantiti con quei cognomi lì sempre pesanti, e rapidi nel comprare negozi e pizzerie, invidiati nel girare sulle grandi moto e le belle macchine, insomma considerati vincenti, eroi, modelli da copiare. Dall’inizio alla fine, dal furto al carcere. Che onore, per i ragazzini nostrani che affollano il Beccaria (uno su tre, mai così tanti da anni) fissare negli occhi, all’ingresso in carcere, il comandante delle guardie Nico Costa e dirgli: «Stai attento. Io sono figlio di, sono nipote di, sono amico di». E chi è figlio di nessuno, s’attrezza uguale, e rivendica una discendenza criminale da, per dire, Renato Vallanzasca. «Arrivò un ragazzino – racconta una guardia – e ripeteva: "Diventerò come Vallanzasca. Belle donne e omicidi"». Che delitti e che pena, al Beccaria, l’istituto più popolato – media giornaliera di 71 detenuti – e famoso d’Italia, perché gli adolescenti cattivi del ricco Nord, vedi l’Erika di Erika e Omar, li mandano sempre qui. Nel 2004, l’ultima evasione. Due romeni, smilzi smilzi, riuscirono a infilarsi nelle sbarre, saltare giù dal secondo piano e oplà, correre nei campi attorno. Li ripresero subito, li rimisero in cella e dopo due giorni tornarono. Una guardia con un centimetro misurò loro la circonferenza della testolina. Si segnò i centimetri su un foglietto, e lo inviò alla ditta incaricata di rifare le inferriate di tutte le finestre, che furono appunto modellate sulle misure dei due: se non passano loro, non passerà nessuno. Infatti. Non è passato più nessuno. Piuttosto, continuano a entrare dal portone. La scorsa settimana, sono arrivati altri piccoli delinquenti da Quarto Oggiaro, beccati dalla polizia a spacciare droga, far le sentinelle dei grandi, annotare le targhe delle auto civetta degli agenti. Al Beccaria li hanno divisi, come fanno con i compari di reato. I pericolosi li sistemano nelle celle singole, minuscole, otto metri quadrati, a guardarne una, adesso, manca l’aria. Gli altri li mischiano nelle doppie e le triple, sui quaranta metri quadri, lì si respira meglio, se non fosse per le nuvolette di fumo che saturano l’ambiente, s’appoggiano sui poster dei calciatori sopra il lettino e sulle foto delle ragazze nude nel bagno e sul mobiletto marrone dove sono appoggiati walkman, coca-cola, birra, e non rasoi. I rasoi no, magari uno li usa per uccidersi o aggredire: per capelli e barba, c’è un barbiere, passa tre volte la settimana.  largo negli spazi e alto nei soffitti, questo Beccaria che da anni e anni poggia su una squadra sparuta eppure, a vederli insieme, affiatata: Nico Costa, l’educatrice Paola che soprintende le mille attività di recupero – scuola, corsi d’informatica, pasticceria, cucina, falegnameria, lettura ”, la vicedirettrice Elvira Narducci, e lui, il cappellano, don Gino Rigoldi. Poi ci sono i volontari, e chiaro non vanno bene tutti, per esempio c’è una ragazza che si presenta mezza nuda, «e no, per cortesia, torni a casa», ci sono gli agenti sott’organico («Mancano 20-30 agenti»), e ci sono quei telefoni inutilizzati e quelle sale-colloqui vuote. Ci son ragazzini che in sei mesi non fanno una chiamata e non ricevono una visita: sono i maghrebini e i romeni arrivati da soli in Italia, presi in custodia da sconosciuti che li hanno spediti in strada. Vien detto a maghrebini e romeni: guardate che potete scrivere lettere a casa. «I più sono analfabeti’ dice don Gino – fanno fatica a mettere una ics al posto della firma». Racconta il marocchino K.: «Un mio paesano mi regalava qualcosa e io la rivendevo per fare dei soldi. Perché i soldi sono belli. Mi piacerebbe trovare un lavoro come meccanico ma non conosco nessuno». Scrive Jonatan su News Bekk, il giornalino dell’istituto: «Sento la mancanza dei miei nonni». E uno che si firma anonimo: «Guardo il tempo che passa che poi, in realtà, non passa mai». E un altro: «Sono stato arrestato per spaccio, ma devo uscire per aiutare la mia famiglia». Un altro ancora: «Non ho mai pensato di entrare dentro ’sta merda e invece eccomi in carne e ossa». Uno su quattro appena ce la fa, dice sforzandosi – è per la rabbia di chi ce la mette tutta ma tanto non dipende solo da lei – la vicedirettrice Narducci. Uno su quattro, scarcerato, non ricade in tentazione. Ma gli altri don Gino? «Si perdono. Manca una rete, un insieme di progetti a larga ricaduta. Certo, prima, alla base, ci sono le questioni dell’immigrazione e del disfacimento della famiglia italiana». Francesco Messina è il capo della squadra mobile: «Non ci sono bande minorili, a Milano – dice – quanto piuttosto giovani che crescono in ambienti dove l’educazione è quella di non rispettare le regole». Sveglia alle 8, pranzo alle 13, cena alle 19, cinque ore in tutto il giorno fuori di cella, alle 21 l’inizio della notte: l’agenda quotidiana del Beccaria è secca e sempre uguale, adesso sono le quattro del pomeriggio, nei corridoi c’è silenzio, in una cella c’è un italiano, sulla mano tra pollice e indice ha un tatuaggio. un quadrato di pallini con un altro pallino al centro, se lo fanno gli adulti finiti al gabbio, simboleggia il carcerato chiuso dalle quattro mura. Molti ragazzini se lo timbrano agli esordi della vita da piccolo boss, nella prospettiva di finire in cella, convinti d’essere, o costretti a esserlo, dei predestinati. Pochi recuperi «Solo uno su quattro non ricade in tentazione», dice la vicedirettrice «Manca una rete, non ci sono progetti di aiuto», aggiunge don Rigoldi Andrea Galli