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 2008  maggio 06 Martedì calendario

Le corsie diventano manicomi. Corriere della Sera 6 maggio 2008 Sono passati trent’anni da quel 13 maggio 1978 che portò tra mille polemiche alla chiusura dei manicomi

Le corsie diventano manicomi. Corriere della Sera 6 maggio 2008 Sono passati trent’anni da quel 13 maggio 1978 che portò tra mille polemiche alla chiusura dei manicomi. Ma solo otto dalla dismissione dell’ultimo, il Santa Maria della Pietà di Roma. Fallimento? Riforma incompiuta? Superate le barricate tra psichiatria tradizionale e antipsichiatria, il mondo della medicina concorda su un unico punto: indietro non si torna. Su come migliorare la situazione, invece, molti hanno le loro ricette. Ma il ministero della Salute avverte: il rischio è un ritorno al manicomio con altro nome. La data di chiusura del Santa Maria della Pietà mostra la forza e i limiti della 180, che tutti ricordano come legge Basaglia, dal nome dello psichiatra che incarnò la battaglia contro l’«istituzione negata». La rivoluzione sta nell’avere riconosciuto al malato di mente dei diritti, togliendogli l’etichetta di pericolo per la società, e nell’avere introdotto il principio di volontarietà della cura; i limiti sono legati ai ritardi e alla disomogeneità di applicazione della 180, derivanti dalla sua natura di legge quadro, che lascia alle Regioni la responsabilità di organizzarne l’applicazione. Resta il fatto che l’Italia è l’unico paese al mondo senza manicomi e i principi ispiratori della Basaglia sono gli stessi alla base del Green paper sulla salute mentale approvato dall’Unione europea nel 2005. Nel nostro paese i pazienti affetti da malattie mentali gravi sono circa 2 milioni e 200 mila. In Europa 93 milioni. «Si ritiene che il tasso di incidenza sia di un malato ogni 10 mila persone all’anno: ad esempio, in una regione come la Lombardia, che ha circa 10 milioni di abitanti, l’insorgenza è di 1.000 nuovi casi all’anno. Che se non curati adeguatamente diventano cronici, in genere a carico delle famiglie» spiega Ernesto Muggia, presidente onorario dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale (Unasam), che riunisce 160 organizzazioni. L’aspetto sociale, dunque, è tutt’altro che secondario visto che la 180, in un certo senso, ha rimandato in famiglia i pazienti, prevedendo solo per i casi acuti il ricovero nei reparti di psichiatria degli ospedali, limitando i trattamenti sanitari obbligatori, privilegiando la riabilitazione e il reinserimento nella società. Insomma, sulla carta tutto bene. Ma la fotografia del territorio mostra molte luci e ombre. Come denunciato dal ministero della Salute nelle Linee di indirizzo nazionali per la salute mentale, approvate il 20 marzo scorso e recepite dalla Conferenza delle Regioni: sono aumentate molto le differenze tra Nord e Sud, tra regione e regione, tra ambiti urbani e rurali; destano preoccupazione alcuni segnali di arretramento rispetto ai livelli di deistituzionalizzazione raggiunti. Il ministero manifesta il timore di un «maggiore ricorso all’obbligatorietà dei trattamenti, a pratiche estese di privazione della libertà e di contenzione, a inserimenti su vasta scala in strutture a tempo indeterminato». L’anello debole nell’applicazione della Bisaglia sono quei servizi sul territorio che avrebbero dovuto fare prevenzione, cura e riabilitazione e che invece non sono stati adeguatamente potenziati. Per cui spesso il ricovero rappresenta l’unica soluzione per un malato grave, che nel migliore dei casi entra ed esce dall’ospedale, nel peggiore resta a vita in una clinica magari privata. Gisella Trincas, ora alla guida dell’Unasam, mette a fuoco il problema: «Dipende dalle Regioni fare una scelta anziché un’altra, privilegiare i centri di salute mentale oppure i posti letto nelle cliniche private. I dati per valutare però ci sono. Un posto in clinica privata costa al giorno 400/500 euro, in una struttura residenziale 250/300 euro, in una casa normale organizzata 120 euro». Per la salute mentale pesa, forse più che in altri campi, l’intreccio tra politica sociale, investimenti e scelte terapeutiche. Un esempio? «In Lombardia i servizi psichiatrici non sono all’avanguardia come magari ci si potrebbe aspettare» spiega lo psichiatra Arcadio Erlicher, primario all’ospedale Niguarda di Milano: «C’è stata una restrizione della spesa sanitaria, che rende impensabile un miglioramento. ovvio però che la situazione di oggi non è paragonabile a quella del ’78». «La Lombardia – per la Trincas – ha un problema di fondo: ha privilegiato la sanità privata». Per Erlicher resta «la necessità di servizi territoriali più consistenti: spesso sono stati trasformati in ambulatori specialistici. Aspettano il malato e sono meno attivi verso il disagio del paziente e della famiglia che lo ha in carico. C’è stata una frattura – conclude – tra una generazione di operatori psichiatrici impegnati nel superamento del manicomio e una generazione medicalizzata e orientata sull’uso dei farmaci: serve una maggiore integrazione». Ci sono anche realtà che funzionano bene. Trieste, ad esempio, è uno dei centri d’eccellenza per la salute mentale. Del resto è da qui che partì la rivoluzione di Franco Basaglia. Il risultato è 6/7 casi di trattamenti sanitari obbligatori su 100 mila abitanti, 4 volte meno della media nazionale. Il direttore del Dipartimento di salute mentale, Giuseppe Dell’Acqua, spiega il successo: «Abbiamo centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, un servizio che in molte parti del paese non è così esteso. Stiamo anche sperimentando il "Budget di salute": costruiamo un progetto di cura e di riabilitazione individuale. Altrove, magari, si preferisce mandare il malato in comunità, ma non è detto che poi riesca a emanciparsi e a reinserirsi». In Italia in genere il problema è che da una parte ci sono gli acuti e dall’altra i cronici, ma in mezzo non c’è quasi nulla. «I servizi di prossimità sono estremamente fragili – continua Dell’Acqua ”. C’è una sorta di contraddizione tra le indicazioni dichiarate di attenzione alla persona e alla famiglia e il modello medico che persiste e vede solo la malattia e non le persone». Difende il modello medico Giovanni Battista Cassano, direttore del Dipartimento di psichiatria dell’Università di Pisa, che nel ’78 contestò la legge 180 «perché ritenevamo che fosse necessario un passaggio graduale e disapprovavamo il modello basagliano che negava la clinicità della malattia mentale », ma che oggi definisce «la terapia di comunità un bene prezioso da far evolvere». «Ora che abbiamo pagato costi altissimi – conclude – non ha senso tornare indietro». Francesca Basso «La follia di mio padre in quelle porte girevoli» MILANO – «Papà, la legge che ha chiuso i manicomi non è riuscita a fermare il disastro, è stato un continuo rotolare verso il basso. Libero di scegliere se sottoporti o no alle cure... hai perso tutto».  un bilancio amaro quello che Luana De Vita, psicologa docente alla Sapienza di Roma con un padre in cura, tracciava in Mio padre è un chicco di grano (Nutrimenti). Un racconto in prima persona di cosa significhi in Italia convivere con la malattia mentale prima e dopo la legge Basaglia. Ma la sua non è una difesa della situazione prima del ’78. Anzi. Lo si capisce bene leggendo Il volo del cuculo, libro-inchiesta (con dvd) sui trent’anni della legge 180, che De Vita ha scritto con Mimosa Martini, in uscita il 9 maggio. Il «verdetto» è poco confortante: si è passati dalle porte chiuse dei manicomi alle porte girevoli. Le revolving door sono la nuova frontiera della follia. Porte che girano continuamente su se stesse, pronte a prenderti e a risputarti poco dopo. Un dentro-fuori che si ripete, una sorta di eterno ritorno che corrode ogni speranza di guarigione. «Nei servizi di salute mentale domina una psichiatria farmacologica che ti somministra una terapia, ti compensa e poi ti ributta fuori» sintetizza De Vita. Il punto è che fuori dalle corsie dovrebbe cominciare il percorso terapeutico ma spesso c’è il nulla o poco più. «Mio padre per esempio una volta dimesso dall’ospedale è stato spedito a casa in taxi a spese sue», racconta. Fino alla prossima crisi. Ma così si tamponano soltanto le emergenze. E non è soltanto una questione di soldi. « anche un problema di volontà: chi vuole organizzare un servizio in modo diverso può farlo – assicura l’autrice ”. Ci sono strutture, poche per la verità, che non si limitano a dispensare farmaci, che elaborano progetti di vita e mettono in piedi reti per realizzarli: terapie di gruppo, gruppi di auto-aiuto, incontri con le famiglie». Così a volte saltano fuori risorse inaspettate. «Un paziente per esempio ha messo a disposizione il proprio appartamento ed è nata una casa-famiglia – racconta ”. La libertà è terapeutica solo se all’esterno esiste un mondo capace di accogliere e trasformare il disagio». Questo era lo spirito della 180. Ma in Italia dove è stato rispettato? «Ad esempio al centro di salute mentale di Trieste aperto 24 ore su 24 dove pazienti e familiari possono fermarsi anche a dormire. Ma anche a Livorno, Cagliari, Nuoro, Mantova, Aversa. A Roma invece la sera è tutto chiuso, tranne l’ospedale». Di un controllo qualità del lavoro dei servizi neanche a parlarne: «Non esiste un registro degli interventi, figuriamoci una stima della loro efficacia». C’è anche chi si fa scudo della Basaglia per non muovere un passo: può capitare (e alla De Vita è capitato) che alla segnalazione del familiare il medico risponda: «Se il malato non viene di sua volontà non possiamo farci niente». Ma la legge dice che deve esserci un’assistenza territoriale, quindi visite a domicilio. Perché «spesso fa parte della malattia la volontà di non curarsi: dallo schizofrenico all’anoressica, il paziente ha sintomi che non riconosce come tali». De Vita racconta la sua odissea tra l’anarchia di certi reparti psichiatrici e denunce penali per abbandono di incapace. Ma a una famiglia quanto costa un paziente psichico? «Troppo, è un terremoto che scardina la vita. Spesso il prezzo più alto è lo stigma e la vergogna: nessuno si preoccuperebbe di parlare dell’infarto del padre, diverso è ammettere che un proprio caro soffre di disturbi psichici. Il pregiudizio verso la malattia mentale non è sparito con i manicomi» constata amara. I veri protagonisti della loro chiusura sono gli psicofarmaci: gocce e pillole hanno reso possibile «la magia» della libertà terapeutica. «Se utilizzati bene sono utili. Con le psicosi sono fondamentali, creano le condizioni per l’intervento terapeutico. In altri casi occorre limitarli: in psicoterapia si lavora sui sintomi e non va bene eliminarli del tutto. Invece abbiamo una mentalità che delega la soluzione dei problemi ai farmaci». Anche il mercato con le sue pressioni fa la sua parte. «Le case farmaceutiche entrano diritte nelle scelte mediche. Basti pensare che l’anno scorso il più importante convegno italiano di psicopatologia, quello della Sopsi, è saltato perché le case farmaceutiche hanno sospeso i rimborsi per i viaggi dei medici in segno di protesta contro il decreto Bersani. Poi ci sono malattie che sembrano create per commercializzare il farmaco come la "sindrome disforica premestruale"». Bisognerebbe invece occuparsi più della persona malata che della malattia: è una lezione che la De Vita ha imparato sulla propria pelle. «Avevo poco più di vent’anni quando per un fibroma volevano asportarmi l’utero. Rimasi perplessa e trovai studi americani su donne con tumori all’utero e al seno. Spesso si verificavano in concomitanza con traumi e perdite. Il mio fibroma poteva essere una risposta alla sofferenza per la mia recente separazione: forse bastava lavorare sulla mia situazione emotiva per stare meglio. Non mi feci operare, iniziai a studiare psicologia, e più avanti ho avuto due splendide gravidanze». Alessandra Muglia