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 2008  maggio 06 Martedì calendario

L’uragano, ultimo alleato dei generali. La Stampa 6 maggio 2008 Abbiamo trepidato in ogni parte del mondo, l’estate scorsa, per la rivoluzione color zafferano che sembrò poter cambiare la storia di un popolo, dietro quei lunghi, silenziosi, cortei di monaci che marciavano a piedi nudi sul lastricato fangoso di Rangoon con la ciotola dell’elemosina rivolta verso il basso, a dire no alla dittatura, alla repressione e alla fame

L’uragano, ultimo alleato dei generali. La Stampa 6 maggio 2008 Abbiamo trepidato in ogni parte del mondo, l’estate scorsa, per la rivoluzione color zafferano che sembrò poter cambiare la storia di un popolo, dietro quei lunghi, silenziosi, cortei di monaci che marciavano a piedi nudi sul lastricato fangoso di Rangoon con la ciotola dell’elemosina rivolta verso il basso, a dire no alla dittatura, alla repressione e alla fame. La Birmania, Myanmar nel suo nuovo nome, entrò di prepotenza nel nostro mondo, svelando conflitti e storie che pareva riproponessero dinamiche sociali antiche, di lotte dove religione e potere si coniugavano fuori dagli schemi che la cultura laica dell’Occidente ha da secoli interiorizzato e rimosso. Poi su quelle storie cadde il silenzio, con il Tibet che s’accendeva di tensioni esplosive. Ora la Birmania torna, con le contraddizioni che la storia e la natura possono talvolta aprire nei loro percorsi casuali. Non sono soltanto i 15 mila morti, né le 2 città distrutte, né i 3 milioni di sfollati e lo sfascio tragico della vita quotidiana della povera gente, che il ciclone Nargis si va lasciando ora alle spalle. In questo disgraziato Paese che una giunta militare regge con mano d’acciaio, il referendum che si sarebbe dovuto svolgere tra un paio di giorni era un’uscita possibile dai morti e dalle ferocia; ambigua, che sembrava proporre una risposta alle manifestazioni popolari ma che, nello stesso tempo, segnava un più forte radicamento del potere militare. Però, ora, come tenere un referendum, dentro un orizzonte umano e politico dove nulla più appare certo, garantito, riconducibile alle forme più elementari della vita sociale. La contraddizione che il referendum apriva, il ciclone Nargis la divarica in misura inquietante, perché muta drammaticamente le scelte e i soggetti che quel voto chiamava a giudicare. Quando la giunta del generale Than Shwe indisse il referendum come risposta alle pressioni del mondo (ma soprattutto della Cina, che ambisce a veder confermato il ruolo di potenza egemone dell’area asiatica e mira a consolidare una stabilizzazione che renda visibile la sua forza di «persuasione»), il progetto che sottoponeva al giudizio popolare aveva l’obiettivo essenziale di istituzionalizzare il ruolo transitorio del governo militare: gli trasferiva una serie straordinaria di poteri, confermandone una legittimazione incontestabile. Tutte le dittature si pongono, prima o poi, il problema di una legittimazione, di un’uscita dalla condizione di transitorietà, e le forme del referendum plebiscitario vengono preferite perché offrono le maggiori garanzie di controllo e manipolazione. E tuttavia, il dibattito che montava tra le forze (più o meno clandestine) d’opposizione puntava a non negarsi al voto perché riteneva che un forte e partecipato rifiuto popolare del progetto di Costituzione avrebbe svelato quanto i cortei dei monaci color zafferano fosse soltanto l’apice di un’insofferenza diffusa. C’erano, naturalmente, i rischi del broglio gigantesco, del regime che controlla il voto. Ma era un rischio che pareva valesse la pena affrontare. Nagris cambia tutto. Non soltanto perché rende impraticabile il referendum ma, soprattutto, perché delegando alle forze armate il controllo totale, inevitabile in una catastrofe naturale, dei soccorsi restituisce al potere militare un’autorità reale - e un’autorevolezza simbolica - che non potranno non incidere sull’esercizio del voto, quando avrà luogo. MIMMO CÁNDITO