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 2008  maggio 07 Mercoledì calendario

10, 100, 1000

festival
L’espresso, 7 maggio 2008
Free genius, ’festival delle intelligenze’ che ha luogo a Fregene (da cui l’astuto calembour ’Free genius’), località balneare a due passi da Roma, ha aperto i battenti l’anno scorso con Massimo Ranieri che presentava il suo libro ’Mia madre non voleva’. Dato il successo dell’iniziativa, a luglio si replica con ancora più ospiti, più soldi, più tutto. Tra Free genius e il festival delle letteratura di Mantova, che nel 1997 ha inaugurato la nuova generazione dei festival tematici (filosofia a Modena, mente a Sarzana, spiritualità a Torino, matematica a Roma, scienza a Genova e via teorizzando) non ci sono di mezzo solo dieci anni. A dividerli è da un lato l’intuizione di creare qualcosa che non c’era, e cioè un incontro culturale ’alto’ e ’caldo’, di qualità e in piazza, anziché in un freddo salotto tv o accademico e, dall’altro, il business dell’intrattenimento nella sua versione più bulimica e più stoltamente fantasiosa. Perché Free genius è in buona compagnia del festival del Tango e di quello del Sole, della Luna, dello Zucchino d’oro, del Fitness, del Sudoku, del Brodetto, della Decrescita felice.

Come risulta da una recente pubblicazione, ’Festival 07-08’ di Tommaso Labianca e Rosanna Romano, con i suoi 1.300 festival censiti l’Italia guida la classifica europea dei paesi festaioli. A che si deve tanta vivacità che ogni estate induce 9 milioni di connazionali a spostarsi lungo la Penisola? Probabilmente a una realtà tutt’altro che vivace: "Povertà degli inserti culturali dei media per esempio, che spinge molta gente a cercare altrove quello che dovrebbe trovare aprendo un giornale", attacca Guido Guerzoni, docente di management di beni culturali alla Bocconi di Milano. "La trivialità della tv", fa eco Domenico De Masi, presidente della fondazione Ravello che ogni anno organizza il festival omonimo. "Fine delle grandi narrazioni, dalla politica alla religione, ma soprattutto vuoto della formazione, che significa scarso o nullo aggiornamento per insegnanti e studenti", secondo Roberto Franchini, presidente del festival di Filosofia di Modena. Tanto che "oggi il festival si può considerare una nuova forma editoriale", sostiene l’editore Giuseppe Laterza che ha promosso le Lezioni di Storia all’Auditorium di Roma e il Festival di Economia a Trento.

Un grande vuoto, dunque, dove galleggia "una domanda di cultura che dopo 40 anni di scuola e di università di massa, è diventata di massa anch’essa e che solo per miopia ci si ostina a interpretare come elitaria", spiega Ilvo Diamanti, prorettore dell’Università di Urbino. questa domanda, forte in quella fetta della popolazione che molti osservatori definiscono la ’parte migliore del Paese’ e che la tv fa finta di non vedere, a riempire le piazze. Che tornano ad essere spazio pubblico condiviso. Ma dove la molla più potente è data dall’essere fisicamente in contatto con il filosofo o lo scrittore, consumandone avidamente non solo le parole, soprattutto l’aura culturale che incarnano. Con l’illusione di appropriarsene almeno in parte.

Di fronte a questa realtà popolata da relatori che rimbalzano da un festival all’altro e a liturgie di massa che evocano un certo tribalismo di ritorno (risse per consumare il cappuccino insieme a Daniel Pennac ospite a Mantova, microfoni strappati di mano per rivolgere un’ultima domanda a Umberto Galimberti) è facile storcere il naso e chiedersi snobisticamente se quell’intuizione geniale che portò 11 anni fa un gruppo di amici mantovani a inventarsi il festival delle Letterature sia diventata marketing. Peggio, routine mediatica. Degenerando non solo in quella no man’s land dell’evento che va grosso modo da free genius al brodetto, ma anche nelle notti bianche che, più che tenere svegli gli italiani, sembrano accompagnarli in uno stato di permanente torpore. Una festa continua "per non uscire mai dal sogno. Per non provare l’angoscia del risveglio", sentenziò amaramente Diamanti durante il circo barnum delle notti bianche della scorsa estate. Perché poi "anche in quei festival che hanno indovinato l’equilibrio tra la dimensione locale (l’uso della piazza più il sostegno finanziario della città) e la spinta globale (l’apertura a saperi internazionali), quando la sera si torna a casa tutto finisce", ammette Roberto Franchini.

Tutto vero. Anche il fatto che i festival, che si svolgono in quelle specie di bomboniere che sono le nostre città d’arte, prese d’assalto da 50-70 mila persone, cifra più o meno equivalente a quella della popolazione abituale, "spappolano proprio quelle città. Perché il consumo culturale non è tanto meglio di quello più mercificato, anche se sono da preferirsi 30 mila giovani che affollano le pizzerie di Mantova o di Modena durante i festival piuttosto che i 30 mila che si accalcano nei casting del Grande Fratello. Ma rimane il fatto che in quattro giorni si fanno contenti albergatori e ristoranti, lobby locali insomma", sostiene Guido Guerzoni. E non solo. Se è vero che per ogni euro investito in un festival ne ritornano 22 alla comunità che lo ospita, l’altra faccia di questa bella notizia è che in città come Spoleto, sede da molti anni del celebre Festival dei Due Mondi, e a Ravello i residenti hanno difficoltà a comprare casa per la lievitazione dei prezzi. Senza pensare che i 22 euro al posto di uno sono cannibalizzati dal turismo: "Si crea un tipo di sviluppo fatto per lo più di bed & breakfast, di pizze a taglio, con problemi di sostenibilità nel medio e lungo periodo specie nelle città d’arte dove i flussi turistici sono molto concentrati. L’equivoco è che il turismo possa essere la soluzione dei problemi, quando invece può dare piena occupazione ma non qualificata e dal punto di vista dell’innovazione tecnologica ha scarsi margini", taglia corto Guerzoni.

E allora, è tutta da buttare la formula festival? La faccenda è delicata. E se è vero che a Modena, città ricca in partenza, a Mantova, alla ricerca di una nuova identità dopo i guai del polo chimico, a Torino, che doveva reinventarsi dopo il passato industriale, a Spoleto e a Ravello, sia pure con il loro ’caro suolo’, è andata meglio che alla Stanga di Padova, il cosiddetto quartiere discarica, o a Scampia di Napoli, forse anche per i festival e le città d’arte è arrivato il momento di correggere il tiro. "In questione sono le politiche urbane. Fino ad oggi le amministrazioni più avvedute si sono preoccupate di vendere le città come un prodotto culturale, e già era un passo avanti rispetto a quando i cittadini erano considerati degli ospiti", sostiene Diamanti, "ma ora è il momento di considerare le città come luoghi di vita di chi ci abita". E sul futuro dei festival Diamanti un’idea ce l’ha: "Spostarli nelle periferie, è facile riqualificare i centri storici, ma più prezioso è recuperare lo Zen di Palermo, La Storta di Roma, Scampia di Napoli, Librino di Catania. Le città oggi sono queste ed è lì che dovrebbero andare i festival".
Adriana Polveroni