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 2008  maggio 07 Mercoledì calendario

Dieci ragazze per me. Vanity Fair 7 maggio 2008 Fare il prostituto è un po’ come fare l’infermiere

Dieci ragazze per me. Vanity Fair 7 maggio 2008 Fare il prostituto è un po’ come fare l’infermiere. In entrambi i casi si tratta di ”drenare” liquidi dalle persone per farle stare meglio». David Henry Sterry parla per esperienza diretta. E non è un infermiere. Americano, 49 anni, oggi attore comico (e non solo) e scrittore, a 17 fu abbordato da un tizio che lo drogò e lo violentò. Una settimana dopo lo stupro, Sterry cominciò la sua carriera di «lavoratore del sesso». Al telefono da New York, dove vive con la moglie e la loro figlia di sei mesi, Olive, Sterry dice cose a metà tra il divertente e l’orripilante, esattamente nello stesso modo in cui le scrive. Il suo libro autobiografico ha un titolo buffo, Un pollastro a Hollywood, ma comincia raccontando il suo stupro: il dolore fisico, la paura e la vergogna. E continua alternando immagini e situazioni che fanno ridere – basta la descrizione dell’autore che se ne va in giro in versione pollastro con jeans «strizza palle» a zampa di elefante – ad altre drammatiche. La più terribile – secondo lui e anche secondo noi – è l’incontro con una donna che gli chiede di mettersi i vestiti del figlio morto, di fare sesso sul letto della cameretta e di dirle frasi tipo: «Mamma, ti voglio bene». Ma è proprio tutto vero quello che racconta? «Sono passati tanti anni. Diciamo che ho scritto quello che mi ricordo, il mio punto di vista. Lo stesso vale per le pagine sulla mia infanzia e sulla mia famiglia: ci sono fatti che i miei genitori ricordano in modo diverso». Comunque, il pollastro, come dice lei, cioè l’escort per donne, lo ha fatto davvero. «Sì, certo. Ed è vero che sono stato violentato subito dopo essere arrivato a Hollywood per studiare». E la scelta di fare il prostituto è stata una conseguenza dello stupro? «Quella violenza non solo ha fatto sì che diventassi un ”pollastro”. Ha ”modellato” profondamente tutta la mia vita. Quello che sono adesso, in buona parte, è conseguenza dello stupro. Ancora oggi mi porto dentro i fantasmi di quello che accadde. Mi capita tuttora di avere incubi terribili». Raccontarlo in un romanzo è stato d’aiuto? «Assolutamente sì. Una delle ragioni per cui ho deciso di scrivere il libro è stato il desiderio di fare i conti con quell’esperienza e con quello che ne è seguito. La mia è stata una vita complicata: a vent’anni sono diventato cocainomane, a trenta ero sesso dipendente. Ed entrambe le dipendenze derivano da quell’esperienza. Per molti anni, dopo lo stupro, ho fatto finta di essere una persona felice, o quanto meno normale. La verità è che normale non lo ero per niente, e che fingere di esserlo mi pesava terribilmente. Imbottirmi di cocaina era un modo per ”curare” l’infelicità che mi causava lo sforzo di far finta di niente. Lo stesso fare sesso con chiunque, di continuo. Scrivere il libro mi ha permesso di riconciliarmi con la violenza subita e con quello che mi ha fatto diventare: un lavoratore del sesso, un prostituto, una marchetta, la cosa peggiore che puoi essere nella nostra società. Se vuoi insultare qualcuno gli dici: ”Sei una puttana”». Pensa che la sofferenza sia la stessa per un uomo come per una donna? «Ho parlato con donne che sono state violentate: le sensazioni e le reazioni sono più o meno le stesse. Anche loro hanno terribili flashback, incubi, continuano a sentirsi in pericolo anche quando non ce n’è più motivo. La società colpevolizza le vittime: questa, forse, è la cosa più terribile e vale per tutti, uomini e donne. Oggi, per fortuna, meno che in passato. Ma a diciassette anni, per me, sarebbe stato inconcepibile, troppo imbarazzante, andare alla polizia a raccontare che un uomo mi aveva stuprato». Ai suoi genitori lo raccontò? «Molto tempo dopo. Ma i dettagli li hanno scoperti solo con la pubblicazione del libro. Mio padre, in particolare, è rimasto scioccato: non mi ha parlato per cinque anni (Il libro in America è uscito nel 2002, ndr). Penso si sia sentito in colpa. Di solito, quando un figlio va a studiare lontano da casa, i genitori si preoccupano di vedere come si è sistemato, di sapere se sta bene. I miei non lo fecero, in quel periodo stavano attraversando un divorzio molto complicato (come racconta nel libro, suo padre scoprì che la moglie lo tradiva con un’altra donna, ndr). E, poi, papà è inglese, e gli inglesi non parlano di sesso. Alla fine, comunque, mi ha scritto una bellissima lettera per chiedermi perdono». All’inizio del libro lei invita chi ha subito una violenza a non nascondersi, a parlarne. Immagino che l’abbiano contattata in molti. «Sono andato spesso a parlare del mio libro agli studenti, e sulla mia storia ho ricavato un testo teatrale che ho portato in tournée. Ogni volta, nelle scuole o nei teatri, almeno un paio di ragazze, talvolta anche ragazzi, chiedono di parlarmi in privato. E mi raccontano storie terribili: ”Mio zio, mio cugino, mio nonno ha abusato di me”. Subire uno stupro è come tornare traumatizzati da una guerra. Non riesci a parlarne, vai in giro pieno di una rabbia che non riesci a esprimere. Questi giovani non hanno mai raccontato a nessuno la loro storia: sentono di poterlo fare con me perché mi hanno ascoltato mentre raccontavo pubblicamente la mia». In che modo, se lo ha fatto, ha cercato di aiutarli? «Prima di tutto, il solo fatto di parlare li fa stare meglio. Ci sono tante cose della Chiesa cattolica che non condivido, ma la confessione mi piace. E parlare di uno stupro è come confessare i peccati a un prete». Lei quando si è «confessato» la prima volta? «Verso i quarant’anni, facendo ipnosi, ho iniziato a fare i conti con quel periodo della mia vita. Poi, diventato scrittore di professione, ne ho parlato al mio agente letterario, che ora è mia moglie e la madre di mia figlia. Le ho raccontato tutto e, mentre lo facevo, una parte della storia mi veniva fuori buffa. Lei mi ha incoraggiato a scriverne, tirando fuori il più possibile il lato comico». In effetti il suo libro è divertente. Anche questo fa parte della «terapia »? «Si dice che la commedia è uguale a tragedia più tempo. Io, nel frattempo, avevo fatto esperienza come attore comico, quindi è stato naturale riguardare quegli eventi attraverso il filtro della comicità. Le faccio un esempio: una delle donne con cui sono stato voleva che mi spogliassi e mi toccassi. Nient’altro. Fino a quel momento non avevo mai pensato che si potesse fare soldimasturbandosi. A ripensarci, dopo, fa ridere». Che genere di donna paga in cambio di sesso? «Di ogni tipo: single, sposate, fidanzate. L’unica cosa che hanno in comune è il fatto di avere soldi. La maggior parte, più che fare sesso, vuole parlare ed essere ascoltata. Allora mi sembrava assurdo. Poi ho capito che è un problema di relazioni fra esseri umani: è più facile parlare con uno che hai pagato perché fingesse di essere tuo amico. Da un certo punto di vista il lavoro del prostituto è simile a quello dell’attore, vai e reciti la tua parte: il ragazzo gentile e affettuoso, che ascolta la triste storia e ti dice: ”Oh, sì, è davvero terribile”. Un giorno, alla fine di un incontro in una libreria, una signora mi ha detto: ”Se ci fosse un modo per fare sesso senza rischi con un bel ragazzo, non ci penserei due volte”. Un’altra mi ha spiegato che, se fosse legale, le piacerebbe aprire una spa dove, da una parte, puoi fare i trattamenti estetici, dall’altra, sesso con uomini carini». Ricapitolando: lei è stato un prostituto, poi un cocainomane, quindi un sesso dipendente, un comico, un attore, uno scrittore… Che persona pensa di essere oggi? «Ho avuto una figlia. Credo di essere soprattutto un padre». Ha pensato a come affrontare l’argomento «che cosa faceva papà da giovane» quando sua figlia sarà più grande? «Ci penso ogni giorno. Qui in America, nelle scuole si celebra il cosiddetto Career Day: ogni studente racconta quello che vorrebbe fare nella vita e, di solito, si fa accompagnare dal padre. Mi immagino la scena: ”Questo è papà, faceva il prostituto, e da grande vorrei seguire le sue orme”. Ora mia figlia ha sei mesi, ma so che prima o poi dovrò affrontare la questione: a dieci anni i bambini navigano già in Internet e un giorno potrebbe venirle l’idea di digitare il mio nome su Google… Ne parleremo quando me lo chiederà. E, a quel punto, sarò onesto». Tra i vari libri che ha scritto, ce n’è uno intitolato 2 Do Before I Die («Cose che voglio fare prima di morire»), una specie di manuale su come impiegare al meglio il tempo che ci rimane. In campo sessuale, lei che cosa vorrebbe fare prima di morire? «Credo di aver provato praticamente tutto... Forse fare sesso con dieci donne». Vuol dire che con nove lo ha già fatto? (Ride) «No, no. Il massimo è stato con tre. Diciamo che mi piacerebbe provare a farlo con quattro o più donne». Enrica Brocardo