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 2008  febbraio 05 Martedì calendario

Pantelleria. La Repubblica 5 febbraio 2008. Siamo il «Bel Paese ch´Appennin parte e ”l mar circonda e l´Alpe»

Pantelleria. La Repubblica 5 febbraio 2008. Siamo il «Bel Paese ch´Appennin parte e ”l mar circonda e l´Alpe». Abbiamo molti, anzi, troppi paesaggi; molti modi per osservarli, raccontarli, interpretarli. E anche una semplice ricapitolazione di luoghi comuni diventa inevitabilmente sovrabbondante. Da dove partire? Voliamo bassi, partiamo da una certezza: da un´estremità. Questa è una di quelle vedute che i vecchi disegnatori definivano «a volo d´uccello». Siamo a un´ottantina di chilometri dall´Africa. L´aereo scende su Pantelleria: un bel caso limite, non solo in senso geografico. Tra tante possibili chiavi di lettura di un ambiente naturale l´antica, semplice ricetta dei quattro elementi mantiene infatti un suo indubbio valore; e la combinazione di terra, aria, acqua, fuoco che si ritrova a Pantelleria punta decisamente verso gli estremi. Isola senz´acqua, spersa nell´acqua... il fuoco del vulcano e del sole battente... il soffio impetuoso dello scirocco e del maestrale che, per almeno sessanta giorni all´anno, blocca ogni comunicazione... la terra inventata, contesa all´erosione, coccolata. Un panorama comincia spesso dalle aspettative. E il primo sguardo d´insieme, dall´alto, conferma le attese: azzurro saraceno, nero infernale, verde passito... Ecco i dammusi... Ecco le palme... Ma davvero a Pantelleria c´erano tutte queste palme? Si dice che l´Italia sia il giardino d´Europa. E´ vero. E, al di là delle citazioni letterarie, a confermare la fama della penisola basta un semplice dato statistico. La matematica del paesaggio, senza giri di parole, parla chiaro. La flora europea è composta da circa diecimila specie; in Inghilterra ne troviamo sulle mille e settecento; in Italia arriviamo a seimila. E non è tutto. Perché nell´analizzare l´alchimia di un panorama, la combinazione di quei quattro principi primordiali si ricombina, a sua volta, con la forza catalizzante di un quinto elemento: l´uomo. Rappresentato, nel nostro caso, dall´«homo italicus»: un soggetto particolarmente attivo (in un arco di tempo che copre almeno tre millenni, dagli ingegneri etruschi agli architetti milanesi) nel modellare, strato su strato, ogni angolo del Bel Paese. Anche in fatto di quinto elemento, peraltro, si vedrà, Pantelleria rappresenta un caso estremo. Il primo colpo d´occhio inganna. Quel paesaggio selvaggio, apparentemente così naturale, una volta messo a fuoco si rivela infatti come uno scenario totalmente artificiale. Ogni avvallamento, ogni anfratto, ogni cambio di livello di quest´isola è stato lavorato, rifilato, scavato. Per sopravvivere a condizioni estreme (situazione che, all´opposto, ritroveremo sulle Alpi), i vegetali si fanno piccoli, testardi, coriacei. Più o meno come è capitato agli uomini abbarbicati a questa pietraia. Una storia che comincia ben prima di quanto ci si possa immaginare, quasi quattromila anni or sono, con la civiltà dei Sesi. «Sese», nel dialetto locale, vuol dire «cumulo artificiale di pietre». Apparentemente sono quattro muretti sgangherati e insignificanti, spersi tra le scogliere. «Eppure eccezionalmente importanti. Perché le vestigia dei Sesi» - spiega il soprintendente, Sebastiano Tusa - «rappresentano il più antico insediamento preistorico affacciato sul Mediterraneo, databile attorno al 17 secolo avanti Cristo». All´inizio sfruttata come una miniera di ossidiana (nella civiltà della pietra per costruire strumenti da taglio non c´era materiale migliore), Pantelleria, all´alba dell´era dei metalli, si era poi trasformata in una tappa sulla rotta dello stagno. E poi, di nuovo ancora, in un altro avamposto su qualcosa, per gli uni o per gli altri: fenici, romani, arabi, fino all´attuale elenco telefonico, zeppo di cognomi liguri e napoletani. Un popolo di coloni, che ha alzato, abbassato, riciclato ripari, cisterne, porcilaie, magazzini, grotte. E curato - da giardiniere, più che da agricoltore - un velo di terra raccolta pugno a pugno e riposta nello scrigno delle terrazze, per far campare capperi e ulivi, viti che si acquattano al suolo, fichi d´India. E ora, sì, anche le palme: un nuovo status symbol paesaggistico. Il dammuso è una capanna di pietre. Una volta il pantesco ci viveva come aggrappato a una zattera. Una dimora spartana, accanto alla quale quelli che rientravano nel novero dei signori piantavano, al massimo, una singola palma: un segno distintivo, «come un don davanti al nome». Nell´evoluzione di una specie, però, ogni tanto si aprono nuove ere. Per la palma pantesca bisogna così distinguere tra un «prima Armani» e un «dopo Armani». Dunque, è accaduto questo. Il primitivo costa caro e a Pantelleria si paga tutto di più: acqua, trasporti, ristrutturazioni (un metro cubo di parete di pietra costa trecento euro). Questo spiega da una parte l´esistenza di tanti dammusi che vanno in rovina; dall´altra il fiorire del dammuso vip, con il suo corredo di palme. Armani nel suo giardino selvaggio - costo della manutenzione, si dice, sui 500 mila euro all´anno - ne ha piantate 180. Lanciando la moda. C´è chi si è fatto il palmeto in stile oasi, chi le ha messe in fila come cipressi. Le palme fanno Africa. E devono far Africa in fretta. Le grandi (costo: sui duemila euro) arrivavano dall´Egitto, a decine, a centinaia. Nei container, però, si è infiltrato anche un parassita micidiale, chiamato punteruolo rosso. L´isola si è riempita di moncherini. E a dimostrare, nel suo piccolo, l´enunciato secondo il quale un battito d´ala di farfalla a Pechino provoca un uragano a New York, uno strisciare di bagarozzo a Pantelleria ha messo in crisi, nel giro di un paio d´anni, tutti i lungomare italiani, fino a Rimini e Riccione. Pantelleria ha una superficie di 83 chilometri quadrati. La Sicilia ne conta 25.426; l´Italia 301.338. Nel complesso dei paesaggi italiani quest´isola diventa una particella insignificante. Eppure, perfino nelle ristrettezze di un territorio così minimale, possiamo scoprire una grande varietà di situazioni. Ora del tutto naturali: a Pantelleria, ad esempio, si ritrovano almeno tre o quattro microclimi, con escursioni termiche di cinque o sei gradi. Ora indotte dall´uomo, anche in tempi recenti. L´ambiente, in apparenza, non si direbbe cambiato da quello descritto da Cesare Brandi, nel 1970. Il nero dell´ossidiana «sciabola riflessi torvi come mannaie». I muretti, che da lontano sembravano muretti, «quando si vedono da vicino appaiono come bastioni». Resiste ancora perfino qualche giardino pantesco, «una specie di nurago, dove, nell´interno, sta chiuso, come il minotauro nel labirinto, un limone o un arancio»: una sfida alla natura, ché nessun sistema agricolo prevede tanto lavoro per far produrre un singolo albero. A osservare più da vicino, tuttavia, i mutamenti non mancano. Si guardi al fattore quantità: negli anni Cinquanta, ad esempio, gli ettari coltivati a vigna erano più di 10 mila, oggi sono sui mille e cinquecento. O si badi ai particolari della qualità, perché la vigna sembra la stessa, ma in realtà è più scapigliata rispetto a quella del passato, maniacalmente pulita, pettinata e rifilata dal bisturi della roncola. Quanti grandi paesaggi ci sono in Sicilia? Palermo e la Conca d´oro, Catania e l´Etna, Ragusa e gli Iblei, i feudi dell´interno, Agrigento e la valle dei templi... Mandorli, carrubi, zolfo, sale, lava, gattopardescamente sospesi «tra la mollezza lasciva e l´asprezza dannata». Grandi scenari, dove Pantelleria diventa un dettaglio e gli sfondi sono tratteggiati dalle pennellate di colore stese dagli alti e bassi delle borse agricole. Vedi gli agrumi: gialli e arancioni in ribasso, secondo i dati della Coldiretti; senza escludere dal pessimismo i tarocchi rossi di Catania, deprezzati da una concorrenza che dalla Spagna si è allargata al Perù e al Sud Africa e flagellati da una malattia arrivata dal Sud America, con un nome che, come quello del punteruolo, è già un programma: la «tristeza». Botanica o entomologica, peraltro, la globalizzazione non è una novità. Giuseppe Barbera, professore di culture arboree all´università di Palermo, comincia ad elencare le piante «indigene» venute da altri continenti: «Il fico d´India? Importato dall´America cinquecento anni fa. La prima notizia di una coltivazione di limoni? Risale al 1095. Il mandarino è stato introdotto nella prima metà dell´Ottocento. L´arancio dolce si diffonde nel Cinquecento…» Senza dimenticare le altre extracomunitarie sbarcate con gli arabi: riso, canna da zucchero, cotone, anguria, melanzane, carciofi... Luca Villoresi (1/continua)