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 2008  gennaio 29 Martedì calendario

MERCATI NERI E REGOLE DEBOLI

Corriere della Sera 29 gennaio 2008. In piazzale di Porta Genova, nel cuore di Milano, ormai da tempo ogni sabato si attiva un mercato di indumenti usati illegale: decine di poveri venditori irregolari, per lo più immigrati, stendono la loro mercanzia di seconda mano per terra, intralciando il passaggio di pedoni e veicoli. Ma è un mercato socialmente utile; qui centinaia di compratori altrettanto poveri trovano di che vestirsi e proteggersi dal freddo a prezzi stracciati: i soli che essi possano permettersi. Quanto ai vigili urbani, quando passano di lì e non sono intenti in fitte chiacchiere tra loro, essi sono costretti da un singolare torcicollo a guardare dall’altra parte.
La scelta, dunque, è di lasciar vivere questo mercato delle pulci. Ma, allora, perché non dettare pragmaticamente regole coerenti con questa scelta, imponendo i soli limiti – fiscali, di sicurezza e di viabilità – che quell’ economia povera può effettivamente sopportare? Non saranno mai limiti più bassi rispetto alle condizioni di irregolarità totale in cui quel mercato vive da qualche anno. Altrimenti, è meglio chiuderlo. Certo, nell’un modo o nell’altro i vigili urbani dovranno lavorare un po’ di più e forse qualcuno perderà qualche bustarella; ma saremo ben felici di indennizzarli, se guariranno dal torcicollo.
Anche il mercato del lavoro irregolare prospera da decenni nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno. Alla periferia di Napoli, per esempio, «le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. (..) Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. (..) Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da 500 a 900 euro. (..) Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono neppure i lavoratori (..). Non c’è contratto, non c’è burocrazia... » (da Gomorra, di Roberto Saviano). Qui le regole le detta e le fa rispettare la Camorra.
Se nel nostro Mezzogiorno il lavoro nero è una realtà radicata e onnipervasiva (si parla di un 25% dell’economia italiana!), non è per la difficoltà di stanarlo: nella maggior parte dei casi chiudere quelle aziende sarebbe un’operazione di polizia facile come chiudere il mercato delle pulci. E qui non si tratta di indumenti usati, ma di lavoro umano: abbandonarlo al degrado di un mercato senza regole non è solo sciatteria, è inciviltà gravissima.
Il fatto è che siamo tutti convinti, pur senza ammetterlo, che l’economia meridionale oggi non è in grado di reggere gli standard negoziati a Roma: imporli col rigore dovuto, qui, significherebbe cancellare centinaia di migliaia di posti di lavoro, sia pur di lavoro nero. Ma, allora, invece che litigare a Roma per trovare uno standard minimo che vada bene per le zone più forti dell’economia nazionale e per quelle più deboli, perché non consentire che nelle prime si contrattino minimi più alti e nelle seconde più bassi, tenendo conto non solo di un costo della vita inferiore nel Sud rispetto al Centro-Nord, ma anche e soprattutto della possibilità di imporre davvero il rispetto rigoroso delle regole negoziate? Sarà sempre meglio che affidare – come facciamo ora – centinaia di migliaia di lavoratori al governo della criminalità organizzata.
PIETRO ICHINO