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 2008  gennaio 29 Martedì calendario

4 ARTICOLI

Agata La santa e la donna. Corriere della Sera 29 gennaio 2008. L’arte come il velo miracoloso invocato per salvare la città da carestie ed eruzioni. Fede o leggenda vogliono che la vergine Agata abbia più volte risparmiato Catania dalla rovina grazie a quel velo bianco che una mano caritatevole adagiò sul suo corpo martirizzato per non aver abiurato il cristianesimo davanti al proconsole romano Quinziano.
Un velo diventato la reliquia per eccellenza a cui i catanesi avrebbero voluto affidarsi anche in anni recenti per fermare alcune eruzioni dell’Etna. Simbolo del culto agatino come centinaia di opere d’arte sparse in chiese e musei di tutto il mondo e che per la prima volta tornano a Catania.
La mostra «Agata Santa: storia, arte devozione» (aperta dal 29 gennaio al 4 maggio) è sicuramente il più ambizioso itinerario nella storia dell’iconografia dedicata a Sant’Agata. Oltre 250 dipinti, sculture, reperti archeologici saranno esposti nel Museo diocesano e in alcune chiese monumentali della città. Tra le opere spiccano una pala del maestro fiammingo Van Dick e il «Martirio di Sant’Agata » di Giovan Battista Tiepolo, realizzato per la basilica di Padova. Il pezzo più raro è invece l’Iscrizione di Iulia Florentina, trovata a Catania nel 1730 e custodita al Louvre. Si tratta di una delle più antiche testimonianze cristiane al mondo che fanno risalire già al 300 il culto della vergine Agata.
Così come il «velo miracoloso », tutte queste opere sono solo i simboli di una devozione e vengono offerti al pubblico con il dichiarato intento di recuperare il significato profondo di una festa che negli ultimi anni sembra essersi smarrita, scivolando spesso nel semplice folklore. Questi per Catania sono i giorni di Sant’Agata: un appuntamento per i devoti col «sacco bianco» e per migliaia di visitatori che arrivano anche dall’estero. Nei tre giorni della festa, che si conclude il 5 febbraio con la processione del fercolo col busto reliquiario della Santa, si contano fino ad un milione di presenze. la terza festa di tutta la cristianità per importanza, ma forse unica al mondo per ciò che svela dell’essenza profonda di una terra e della sua gente. A cominciare dal rapporto dei catanesi con la loro santa. La invocano come una sorella e le offrono ceri sempre più grandi in ragione di ciò che si chiede. Ceri che per le varie categorie di mestieri, dai pescivendoli ai panettieri, si trasformano in «cerei» o «candelore » affidate a portati di professione che si esibiscono nelle caratteristiche «annacate » e in prove di resistenza fisica.
Con la loro patrona i catanesi hanno un rapporto quasi carnale. Sant’Agata è una delle poche sante della cristianità che mostra i segni del martirio – i seni fatti strappare da Quinziano – senza alcuno scandalo. E i catanesi quei seni li mangiano. Si chiamano appunto «minnuzzi di Sant’Aita» i dolci tipici venduti in questo periodo: un ripieno di ricotta, ricoperto di glassa e guarnito da un’unica ciliegia sciroppata. E con i ingredienti del genere, quelli dei dolci come della festa, si rischia costantemente di esagerare. L’anno scorso fu il più noto dei catanesi, Pippo Baudo, a chiedere che la festa venisse sospesa dopo i drammatici incidenti del 2 febbraio allo stadio in cui venne ucciso l’ispettore Raciti. Ma nessuna autorità riuscì a bloccare la macchina dei festeggiamenti: un popolo che venera una martire non trovò la forza per rispettare un martire dei nostri giorni. Un anno dopo si cerca di riflettere e fare anche autocritica grazie alla forza miracolosa dell’arte.
Alfio Sciacca


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Casta, regale, erotica. Con un pizzico di sadismo. Corriere della Sera 29 gennaio 2008. Professor
Lucco, a cosa si deve la fortuna agiografica e pittorica di sant’Agata?
« una vicenda assai particolare, la sua: è raro infatti che santi tanto legati a una città riescano a conquistarsi una popolarità così vasta. La leggenda del suo velo che nel 252, esattamente un anno dopo il martirio, fermò il fiume di fuoco eruttato dell’Etna ha giocato un ruolo importante. Ma a fare la differenza è soprattutto la sua sensualità: tenaglie e seni hanno eccitato la fantasia degli artisti. Ma non certo agli inizi della sua storia iconografica».
Come mai?
«Stiamo parlando del V e del VI secolo, sant’Agata è rappresentata in maniera assolutamente casta, con un tunicone accollatissimo e la corona in testa. Non perché sia di origini nobili, ma poiché investita dalla regalità del suo sacrificio», spiega Mauro Lucco, docente di Storia dell’arte moderna all’Università di Bologna e curatore della mostra catanese «Agata Santa. Storia, arte, devozione».
Poi cosa cambia?
«Cambia che, dal Duecento in poi, il soggetto diventa l’atto stesso del martirio. Con la tavola reliquiario di sant’Agata dell’omonima chiesa di Cremona – è la prima volta che accade nella pittura italiana – si passa dall’icona alla narrazione: ecco il taglio dei seni, la tortura dei carboni ardenti, la morte in carcere. I santi entrano nel tempo, si vestono con abiti contemporanei, i loro volti assomigliano a quelli dei fedeli. Nel 1330 Puccio Capanna la dipinge come una donna moderna, con l’abito all’ultima moda bordato d’oro».
La bellezza è uno dei segreti del suo successo.
«Sì, soprattutto quando alla fine del Quattrocento l’erotismo entra nel novero delle cose che si possono raffigurare. E, nel suo caso, i seni morbidi vengono resi ancor più provocanti dal sadismo della tortura inferta con le tenaglie».
Gli effetti della Controriforma?
«Sant’Agata viene rivestita. Basta divagazioni narrative e "distrazioni" sensuali: la scena deve svolgersi in un’atmosfera plumbea. Dalla metà del Cinquecento la si vede soprattutto in carcere, con san Pietro che le guarisce miracolosamente il petto martoriato».
Qual è il dipinto meno convenzionale che ha selezionato per la mostra?
«Una tavola di polittico proveniente dalla bottega di Bernardo e Antonio Marinoni: invece di tenaglie o coltelli compare una specie di sega da boscaiolo, di quelle da usare in due. Non solo: i seni sono sorprendentemente rimasti attaccati alla lama».
Fabio Cutri


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Le feste sacre nuovo viaggio «emozionale». Corriere della Sera 29 gennaio 2008. «Trionfa l’economia dell’esperienza». Claudio Bernardi, professore di drammaturgia teorica alla Cattolica di Milano, lascia da parte il teatro. Per spiegare quello che definisce «il neo-rinascimento delle feste popolari d’Italia», ricorre al linguaggio degli economisti. «Sempre più spesso il turista cerca un viaggio emozionale, una vacanza che sia anche un’esperienza coinvolgente. Nelle feste c’è qualcosa che i pacchetti turistici non hanno: la folla che trascina anche lo spettatore più lontano e l’incontro magico tra spiritualità e vita all’aperto della città, un momento di grazia collettiva che rende tutti più disponibili, per la buona riuscita dell’evento ».
I centomila che si scatenano per la notte della Taranta, nel Salento, i quattrocentomila al corteo della Santuzza di Palermo sono la punta dell’iceberg di quello che gli studiosi chiamano «municipalismo sacralizzato» del nostro Paese, snodo d’incontro di tutti i fili religiosi e sociali che formano il tessuto identitario italiano. Credenze, riti, mitologia, buona cucina e persino politica s’intrecciano confondendo i piani. Così la festa di San Gennaro è gestita da una sorta di holding che comprende Diocesi, Comune di Napoli e Presidenza della Repubblica. E può capitare, come è accaduto a Gubbio qualche anno fa, che non si trovino scrutatori per le elezioni comunali: tutti impegnati nella corsa dei Ceri.
Ora la festa piace anche ai turisti, soprattutto a quelli stranieri. Il conforto dei dati arriva da Bitlab, l’Osservatorio permanente sull’immagine del settore turistico italiano all’estero. Adalberto Corsi, presidente di Expo Ct, la partecipata di Fieramilano e Unione del Commercio che organizza la Borsa internazionale del turismo (a Milano, dal 21 al 24 febbraio), sottolinea il successo: «Quest’anno le feste popolari religiose registrano un incremento del 20 per cento e il giro d’affari è di oltre tre miliardi di euro con un movimento di più di 40 milioni di turisti ».
Bernardi, autore di un volume sulla Drammaturgia della settimana santa, azzarda: «La festa popolare è una sorta di terapia collettiva che libera i freni inibitori. In una società individualista come la nostra, la celebrazione del santo patrono o i riti di un appuntamento religioso sono una boccata d’aria buona. E’ il massimo della teatralità e della democrazia: ogni cittadino diventa protagonista ».
L’Italia, dicono i dati che saranno presentati alla Bit, è in cima alle preferenze degli stranieri per i viaggi a tema spirituale. Ma Corsi precisa: «Restiamo al top nonostante la concorrenza di Paesi quali la Turchia, la Polonia e la Grecia che stanno rilanciando questo tipo di turismo». Quanto alle feste popolari, «il 50 per cento dei turisti con destinazioni religiose ha un interesse culturale, solo il 20 per cento è costituito dai cosiddetti pellegrini, ossia turisti mossi da interessi di tipo soprattutto religioso».
I tedeschi amano Procida e la sua processione dei Turchini, tra i riti della settimana Santa ereditati dalla tradizione barocca e se gli americani restano affascinati dai Serpari di San Domenico in Abruzzo, gli inglesi si dividono tra la Madonna delle nevi di Santa Fiora, in Toscana, la festa di Sant’Efisio a Cagliari e la Madonna della Salute di Venezia. Agli spagnoli invece piace di più il pittoresco Ballo dei Diavoli di Enna.
Olga Piscitelli

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Gli agnelli di Cristo in pasto ai leoni Quando la fede si paga con la carne. Corriere della Sera 29 gennaio 2008. Nel martirio, i cristiani dei primi secoli pensavano di rivivere, e così perpetuare, il sacrificio di Gesù: la conferma della fede doveva essere pagata dal prezzo della carne. La forza di Agata, la vergine appena quattordicenne di Catania, sta proprio nell’aver sacrificato la sua età e la sua bellezza, con la mutilazione più umiliante che possa soffrire una giovane donna, quella dei seni. Ma certo sono stati molti prima di lei ad accettare la lacerazione del corpo in nome del Cristo. Mentre percorreva le infuocate pianure dell’Asia Minore per essere condotto a Roma e dato in pasto alle belve, Ignazio, vescovo di Antiochia fra il 70 e il 107 d.C., scrisse una Lettera ai Romani, rispondendo alle molte offerte di soccorso per una eventuale fuga che, nel corso del viaggio, gli erano venute da quella comunità. Le immagini del prossimo martirio egli le aveva ben chiare davanti agli occhi. Sapeva che, sulla sabbia inumidita del Colosseo, circondato dal popolo pagano, il suo corpo sarebbe stato «disarticolato», «mutilato », «stritolato» dai leoni. Tuttavia, non si sarebbe sottratto. «Temo – scrisse – che la vostra carità mi sia di danno. Soltanto domandate per me la forza interiore ed esteriore, perché non solo parli ma anche sia deciso, non solo venga chiamato cristiano ma lo sia realmente. Lasciatemi essere pasto delle belve, per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio... Sono frumento di Dio», aggiunse in una delle prime metafore eucaristiche del martirio che, forse, nei secoli successivi, qualche anonimo copista perfezionò; «verrò macinato dai denti delle belve, per diventare immacolato pane di Cristo ».
Di Policarpo, destinatario di un’altra lettera di Ignazio, nella quale era lodata la sua pietà, si diceva che fosse stato in diretto contatto con alcuni discepoli di Gesù. Fu vescovo a Smirne. Attorno alla metà del II?secolo, quando aveva ormai raggiunto la veneranda età di ottantatré anni, subì il martirio. In una lettera indirizzata a un certo Filomelo di Frigia, la chiesa di Smirne raccontò come accadde. Qui, il parallelismo con la passione di Cristo è più che evidente. Quando stavano per prenderlo, infatti, Policarpo venne indotto dai suoi a nascondersi in una piccola proprietà di campagna alle porte della città. Era venerdì sera. All’ora di cena, un gran numero di guardie armate e soldati a cavallo vennero ad arrestarlo. Egli poteva fuggire. Non volle. Disse: «Sia fatta la volontà di Dio». Chiese di potersi ritirare un paio d’ore a pregare in solitudine. Alle guardie, offrì da mangiare e da bere. Venne il sabato. Fu issato sulla groppa di un asino e condotto in città. Il capo della polizia che gli si fece incontro si chiamava Erode. «Che c’è di male – gli chiese – a dire: Cesare Signore? ». Ma Policarpo si rifiutò di accondiscendere ed entrò nello stadio nero di folla, mentre una voce, dal cielo, lo esortava ad avere coraggio. Fu il turno del proconsole, allora: «Vuoi dire: morte agli atei?». Il vescovo di Smirne rispose: «Sì». «Vuoi maledire Cristo?». Lui rispose: «Sono più di ottanta anni che lo servo e mai mi ha fatto torto. Come posso bestemmiare il mio re e salvatore?». «Sei cristiano, dunque?», quello gli domandò. Policarpo rispose che era cristiano.
Quindi, in mezzo allo stadio, un araldo annunciò: «Policarpo ha confessato di essere cristiano!» e la folla inferocì. Così, Policarpo si spogliò delle vesti e si sciolse i calzari, recitò parole di fede: un breve Credo che la tradizione manoscritta certamente perfezionò; e, senza farsi legare, si sistemò al centro del rogo. Tuttavia, le fiamme non lo lambivano. Si innalzavano come in una volta, come una vela di una nave gonfiata dal vento, e non lo lambivano. E, intanto, nell’aria si spandeva una deliziosa fragranza: un profumo di pane cotto e di incenso. Tant’è che, per ucciderlo, dovettero usare una daga. Gliela conficcarono nel petto con tale forza che il getto di sangue estinse il fuoco. A quel punto Policarpo morì.
Non molti anni più tardi, nel 203, nell’arena di Cartagine, una giovane donna, Perpetua, avrebbe saputo imitarlo. Era stata catturata insieme ad altri catecumeni, tra cui un certo Saturo. Prima del martirio, entrambi ebbero visioni intensissime. Questo fatto, del resto, è ampiamente comprensibile: nell’imminenza del disfacimento della carne, la mente sfiorava il delirio. O era Dio che alla mente delirante inviava le immagini del suo conforto? Perpetua vide una scala irta di spade e artigli, alla base della quale stava un serpente. Lei schiacciava con un tallone il capo del serpente; superava gli arpioni e le lance che prefiguravano le prossime sofferenze; finalmente, saliva in un giardino. Qui, l’aspettava un vecchio con una grande barba bianca: un pastore circondato da pecore appena munte. «Benvenuta, figlia – le diceva il vecchio, offrendole del formaggio. A pochi metri di distanza, nella sua cella, anche Saturo sognava di entrare in un giardino. Anche lui vedeva una grande luce. Anche lui udiva un dolcissimo coro. Poi, il medesimo vecchio con la barba bianca gli si faceva incontro, lo baciava e gli sfiorava il viso con una mano. Ora andate a giocare – diceva il vecchio a Saturo e a Perpetua – conducendo, nel buio dei loro cuori, la luce rassicurante dell’infanzia.
I martiri morivano, con atroci sofferenze. Ma queste sofferenze non scoraggiavano la comunità cristiana. Semmai, fortificavano la fede. E, immediatamente dopo la loro morte, i luoghi della sepoltura dei martiri diventavano luoghi di culto. Come per esempio, sempre a Cartagine, accadde per il vescovo Cipriano, martirizzato il 13 settembre del 258 e cioè sette anni dopo Agata. Cipriano morì con grande dignità e coraggio. La stessa notte, il suo corpo fu portato in processione con ceri e fiaccole nel cimitero del procuratore Macrobio Candidiano, vicino alle cisterne, dove fu sepolto. Il suo culto fu così immediato che molto presto i cristiani cominciarono a farsi seppellire accanto alla sua tomba, e ai tempi di Agostino già esistevano tre santuari in suo onore.
GIORGIO MONTEFOSCHI