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 2008  gennaio 30 Mercoledì calendario

Il democristiano sempre in piedi non perde il vizio. Libero 30 gennaio 2008. Avrà 75 anni ad aprile, e finora non ne ha sbagliata una

Il democristiano sempre in piedi non perde il vizio. Libero 30 gennaio 2008. Avrà 75 anni ad aprile, e finora non ne ha sbagliata una. Forse una sola, che mai nessuno ricorda, quando divenne europarlamentare del partito socialdemocratico nel 1979, per tornare subito nella Dc, di cui aveva la tessera dal 1950. Ora, per Franco Marini, si tratta di non sbagliare il conto dei senatori che potrebbero votarlo, se accetta l’invito del Quirinale e di D’Alema a un tentativo di governo istituzionale. Mica facile, però, evitare l’errore. E Marini conta e riconta. D’Alema, ieri pomeriggio, ci si è chiuso insieme nello studio da presidente del Senato. Che si è conquistato al terzo scrutinio con 165 voti, nella più rovente polemica contro il centrodestra che in realtà a Palazzo Madama aveva vinto, in termini di voti validi, ma al quale il corrusco prodismo negava il diritto ad alcuna carica istituzionale. E mica ha vinto contro Tizio o Caio, Franco Marini. Ha sconfitto Giulio Andreotti, il premier del quale nel settimo governo omonimo - dall’aprile del 1991 all’aprile 1992 - lo stesso Marini fu stimato ministro del Lavoro, mettendo mano a un’ipotesi di riforma previdenziale che alla fine fu travolta come tante altre - erano ostili i socialisti - ma che tanto male non era. Anche perché, da ex leader dei dipendenti pubblici cislini, Marini mica ce l’aveva tanto pulita la coscienza, avendo strappato in anni d’oro le baby pensioni dopo soli 19 - e in alcuni casi anche solo dopo meno di 12 - anni di lavoro.... Carriera perfetta In ogni caso, ora per Marini il problema è un altro. Non ha sbagliato nell’ascesa da sindacalista. Non ha sbagliato da democristiano, sotto la guida di Giulio Pastore e poi ereditando da Donat Cattin la corrente di Forze Nuove, fregando tipetti come Vincenzino Scotti e Sandro Fontana. Non ha sbagliato da capopartito, perché alle elezioni la Dc scoprì nel 1992 che Marini incassava ben 116.000 preferenze, recordman nazionale. Non ha sbagliato nemmeno nel traghettamento dalla Dc che affondava, visto che nel Ppi defenestrò il mite Martinazzoli prima scegliendo Buttiglione al suo posto, poi silurandolo e sostituendogli Gerardo Bianco, e infine guidando lui il Ppi verso la Margherita, di cui controllava ferreamente l’organizzazio ne, tanto perché Rutelli non si montasse la testa. Dieci anni fa c’era Marini insieme a D’Alema dietro alla caduta di Prodi, e a unire i due mastini c’era l’idea di contrastare il confuso e bellicoso ulivismo prodiano che voleva annacquare le identità partitiche. Certo, l’idea del patto di ferro stretto allora prevedeva che D’Alema andasse a palazzo Chigi e la Jervolino al Quirinale, e alla fine la cosa andò diversamente. Ma Marini su D’Alema si è preso la rivincita non muovendo un dito per la sua candidatura al Quirinale dopo Scalfaro... Infatti, oggi è presidente Napolitano. Ed è lui a chiedere a Marini di scendere in campo per evitare il voto anticipato. Ma glielo chiede con D’Alema. Con il quale Marini torna da dieci anni sullo stesso luogo del delitto: il post prodismo. E D’Alema, principe del realismo, anche del Quirinale negato si è fatto una ragione. Marini, però, ha fama di essere uno dalla testa tosta. La mano non me la faccio storcere, dice. il primo di sette figli di un operaio della Snia Viscosa, è cresciuto a San Pio delle Camere, microbico villaggio aquilano della comunità montana di campo Imperatore. Ha servito negli alpini, sottotenente di complemento nella Tridentina, e tenta di non perdersi un raduno annuale dell’ANA. Da alpino testa dura, quando i pm lo mozzicarono ai tempi di Mani Pulite, riversandogli addosso accuse di concussione e finanziamento illegale della sua corrente e del partito, tenne durissimo e alla fine ebbe ragione. «I conti li so fare», dice. E fu così che battè Andreotti, in Senato. Ora rifà con D’Alema e Napolitano gli stessi conti. E per questo al Capo dello Stato e al ministro degli Esteri ha posto come condizione per accettare che sia l’Udc per intero coi suoi 20 senatori, a votare la fiducia al governo Marini. Perché i 157 voti "politi ci" del centrosinistra in Senato, venti mesi fa, possono diventare 158 col suo. Ma poi bisogna levare Turigliatto il dissenziente, due dell’Udeur di Mastella, poi almeno 4 o 5 senatori tra il Pdci di Diliberto e qualche altro dissidente delle minoranze di Rifondazione. E si scende a quota 150, tenendo dentro i diniani visto che a Lamberto si potrebbe offrire anche una bella poltrona ministeriale. Del resto, Dini è stato il primo a indicare Marini come eventuale premier, sin dalla scorsa estate. Ma a quota 150, anche aggiungendo sei senatori a vita, si perde matematico. Per questo serve l’Udc, ragiona Marini. Non basta il senatore Baccini che dall’Udc ormai si considera in uscita, né che a lui si sommino eventualmente un paio di altri senatori centristi materializzandosi dall’ombra. Anche così per Marini il voto sarebbe sul filo, con l’onta di un’eventua le sconfitta come mai ne ha rimediate nella vita. E Marini resiste. Occhio al diciassette Per questo Napolitano e D’Alema, ieri sera, hanno dovuto prendere tempo. E Casini, da Israele dov’era in visita alla Knesset, ha sparato fulmini e saette contro chi crede di far nascere un governo pericolante con l’obiettivo di una Cosa bianca che a D’Alema serve come interlocutore per l’eventuale riforma elettorale alla tedesca, ma che per l’Udc e il suo leader sarebbe la fine. Visto che Tabacci e Baccini, Pezzotta e altri ex Dc oggi dispersi, non darebbero mai all’Udc di Casini la barra del comando. Ma se hai sconfitto Andreotti, figurati quanto ci metti a mangiarti Casini, sussurra D’Alema a Marini. Ma come potrebbe governare poi, il lupo marsicano, con la sinistra che non gli vota le missioni internazionali? Che riforma elettorale può nascere mai, contro l’inte ro centrodestra e su un’avventura nata sull’ennesima scissione di ex Dc? Ne ho contate 16, da luglio del 2006 a oggi, di smentite di Marini all’ipotesi di voler succedere a Prodi come premier istituzionale. Attenzione a non cadere sul numero 17, caro presidente del Senato. OSCAR GIANNINO