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 2008  gennaio 29 Martedì calendario

UN PAESE SEMPRE PI DISUGUALE

La Stampa 29 Gennaio 2008. Se c’è ancora qualcuno nella nostra vetusta e autoreferenziale classe dirigente che si propone di capire il Paese, farà bene a studiare con attenzione i dati Bankitalia sui redditi e la ricchezza della famiglie italiane, di cui ieri abbiamo ricevuto l’ultima puntata. Assieme ai dati Istat pubblicati due settimane fa ci spiegano il perché del disagio diffuso, delle percezioni di impoverimento, di molte famiglie italiane.
I redditi degli italiani, soprattutto quelli dei lavoratori dipendenti, sono rimasti al palo dall’inizio del nuovo millennio. I governi che si sono da allora succeduti non sono riusciti né a far ripartire il Paese, né ad abbassare le tasse. Per questo, il reddito disponibile delle famiglie non è aumentato. C’è stata soltanto una ridistribuzione del reddito: dal lavoro dipendente al lavoro autonomo nel periodo in cui c’erano condoni di tutti i tipi e di più; parzialmente in senso contrario, dal lavoro autonomo al lavoro dipendente, nel periodo 2004-2006. Il saldo da inizio 2000 è, comunque, favorevole al lavoro autonomo, i cui redditi sono cresciuti in termini reali del 13,1 per cento rispetto allo 0,3 per cento dei lavoratori dipendenti. Nessuno, proprio nessuno, sembra invece aver pensato ai giovani e alle famiglie numerose, con figli. Tra i giovani è aumentata la povertà (salita dal 18 al 19 per cento in sei anni, tra le famiglie con capofamiglia con meno di 30 anni) proprio mentre diminuiva per tutte le altre fasce di età. La povertà tra i giovani sarebbe oggi ancora più alta se queste famiglie facessero più figli: lo si vede comparando la dinamica dei redditi pro capite e dei redditi equivalenti (corretti per la dimensione del nucleo famigliare).
Igiovani sono più poveri non perché rinunciano a lavorare: i cosiddetti «bamboccioni», gli under 30 che vivono ancora con i loro genitori, sono diminuiti. Il fatto è che i giovani, per uscire di casa, devono porsi in condizioni di crescente fragilità finanziaria. In un Paese che concentra ricchezza nel patrimonio immobiliare e in cui i redditi da lavoro, soprattutto dei giovani, non crescono, ci vogliono oggi più di 12 anni di salario per comprarsi una casa (ce ne volevano 8 solo 12 anni fa). Non rimane perciò che indebitarsi versando poi (come avviene per una famiglia media con capofamiglia con meno di 40 anni) un quinto del proprio reddito per pagare le rate del mutuo. Diminuisce anche la mobilità ascendente, quella che può permettere a chi viene dal 20 per cento più povero della popolazione di accedere a fasce più alte della distribuzione dei redditi. Se tra il 1998 e il 2000, la probabilità di farcela era di un terzo, adesso è scesa a meno del 29 per cento. Siamo un Paese sempre più ingessato e con disuguaglianze più forti della media europea, superiori a quelle, non solo dei paesi nordici, ma anche di Francia e Germania e degli stessi paesi che ci hanno da poco superato, Irlanda e Spagna.
Ieri mentre fioccavano i comunicati in reazione a questi dati, mentre si succedevano le dichiarazioni allarmate e si riproduceva il consueto scaricabarile, non ci risulta che alcun uomo politico o esponente delle parti sociali abbia posto l’accento sulla «questione giovanile», nonostante sia questa a determinare la stessa «questione salariale». Questo silenzio collettivo è un fatto in sé molto indicativo.
C’è una ragione in più allora per andare al voto con una nuova legge elettorale: bisogna permettere subito ai 16enni di votare. Sarebbe uno shock salutare, un’iniezione di realtà. Vorrebbe dire avere un milione e mezzo di votanti in più, potenzialmente decisivi per l’esito delle elezioni. I partiti sarebbero, almeno per una tornata elettorale, obbligati a pensare di più a loro.
Nel frattempo le forze sociali possono dare il buon esempio, legando più strettamente il salario alla produttività. Permetterà ai giovani di vedere crescere più rapidamente il proprio reddito mentre fanno crescere quello di tutti. Per riformare la contrattazione salariale non c’è bisogno di un governo. Possono farlo sindacato e organizzazioni di categoria domani, in piena crisi. Basta volerlo.
Tito Boeri