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 2007  luglio 28 Sabato calendario

I GRANDI DEL CREDITO 2

Meyer, il genio francese a Wall Street. Il Sole 24 Ore 28 luglio 2007. David Rockefeller lo considerava «il genio finanziario più creativo nel mondo dei banchieri d’affari». Secondo Giovanni Agnelli era a un tempo «il principale architetto e il giudice supremo che aveva l’ultima parola». Enrico Cuccia lo idolatrava per la sua discrezione e capacità. Per Robert McNamara, ex ministro della Difesa Usa e presidente della Banca mondiale, era nella finanza «un gigante assolutamente unico». Carlo Bombieri, che come capo delle operazioni estere di Comit lo incontrò spesso negli anni 50, lo riteneva soprattutto «un cinico e assetato di denaro che spiegava spudoratamente come arricchirsi era per lui un culto e i mezzi non gli importavano». Venerato, temuto, sgradito: questo e altro era André Meyer, il banchiere che inventò l’ingegneria finanziaria trasformando la Lazard in un’élite house esclusiva, leader indiscussa del merger & acquisition che infiammò l’America del dopoguerra creando giganti del calibro di Itt.
Piccolo e grassoccio, occhialuto da una vita, poco gli importava di essere assolutamente sgradevole nel tratto e nei comportamenti umani. Con il passare del tempo Meyer farà di questo vizio una virtù, sino a coniare un detto divenuto famoso nei circoli finanziari di mezzo mondo: «Perché essere antipatici quando con un minimo sforzo si può essere odiosi?». Era un duro e inflessibile, con una testardaggine e il culto della propria indispensabilità che non gli venne mai meno nemmeno nella stagione triste della malattia – un cancro alla prostata – che lo costrinse a lasciare la guida della banca dopo 34 anni e di lì a poco, il 9 settembre 1979, anche la vita. Aveva appena compiuto 81 anni.
Era nato il 3 settembre 1898 a Parigi da una famiglia ebraica di modeste condizioni. Lavorò come fattorino presso un agente di cambio ebreo. Invece della Torah imparò subito i misteri dei listini. Cresciuto a procacciatore di affari, venne notato da David Weill, patron della Lazard, ma André non volle essere soltanto assunto, pretese di essere associato. In molti lo presero per pazzo. Ma a vincere fu lui. In poco tempo Meyer assunse un ruolo di protagonista nella Lazard Frères et Cie. L’occupazione nazista di Parigi lo costrinse, però, a emigrare. Aveva già alle spalle operazioni di successo come il salvataggio della Citroën. La scelta cadde su New York, dove in pratica Meyer fece della Lazard americana il braccio più potente del gruppo finanziario francese.
Meyer divenne negli anni il banchiere di fiducia dei Kennedy, amico di Lyndon Johnson e dello Scià di Persia, consulente di istituzioni di prestigio come l’Eliseo di George Pompidou e la Comunità europea ai tempi di Jean Monnet. Gli amici intimi di Jacqueline Kennedy ricordano come Jackie, tutte le volte che doveva prendere una decisione, diceva: «Fatemi parlare prima con André».
La sede newyorchese della Lazard era al 12° e 13° piano del grattacielo di Wall Street al numero 44. Si distingueva – sottolinea Cary Reich, il biografo di Meyer autore del libro Financier del 1989 - per la sciattezza e la povertà dell’arredamento come se invece di essere nella più esclusiva delle banche d’affari si fosse in un’anonima ditta commerciale dell’Inghilterra narrata da Charles Dickens. A chi gli chiedeva perché non rimpiazzasse il sofà pieno di buchi, Meyer replicava: «Indicatemi un cliente che abbia perso dei soldi a causa di un divano un po’ malconcio».
Meyer a New York aveva scelto l’hotel Carlyle hotel come residenza. Teorico del financial engineering , per come lui lo intendeva, il banchiere d’affari doveva individuare il nodo cruciale di un’operazione e il modo per risolverlo. Il che lo distingueva dai rivali della Lehman dove il boss di allora, Bobbie Lehman, puntava spesso più sulla mistica suggestione della parola che sulla sostanza del consiglio. Tanto da diventare una sorta di blob ante litteram l’affermazione: «Sapete qual è la capitalizzazione di General Motors?» con cui Lehman rispondeva ai clienti che gli chiedevano se anche lui non ritenesse la loro società troppo capitalizzata. Per Meyer non è mai stato così. Le parole andavano soppesate sempre. Anche i silenzi, quando spesso preferiva risolvere tutto con «non ho mai sentito parlare di loro». Come successe, con George Plescoff, presidente dell’Assurances Generale che gli aveva chiesto un parere su una compagnia americana con la quale intendeva stringere una joint venture. Plescoff lasciò l’incontro totalmente stupito che un banchiere come Meyer non conoscesse quella compagnia. Ma dal tono di voce capì che non era il caso di chiudere l’affare. Il «non conosco» detto in modo severo e definitivo da Meyer era una sorta di avviso che si aveva a che fare con dei truffatori. Come si rivelarono tali i vertici di Equity funding corporation, finiti nella rete della giustizia nel giro di sei mesi per una frode colossale.
Meyer lavorava sempre, almeno 14 ore al giorno. A letto ogni sera alle 22, si svegliava alle sei del mattino. I week end li passava in compagnia di personaggi come Rockefeller o Agnelli. D’estate la meta preferita era Crans. Anche con Cuccia intense furono le frequentazioni. Non c’era affare in Italia su cui i due banchieri non si consultassero. Risale al 1942, al viaggio di Cuccia a Lisbona, il primo incontro tra i due banchieri grazie al tramite dell’ambasciatore americano in Portogallo, George Kennan. Il sodalizio d’affari venne suggellato nel 1956 quando Mediobanca alla ricerca di capitali trovò, grazie agli uffici di Bombieri, quelli di Lehman e Lazard che insieme acquistarono il 10% della banca milanese. Se i rapporti con Lehman si allentarono in seguito, quelli con Meyer si rafforzarono sempre più. Fu Meyer che consigliò Cuccia di rivolgersi ai capitali libici della Lafico per trovare un partner finanziario alla boccheggiante Fiat del ’76. Tre anni prima era nata l’operazione Euralux, la società lussemburghese che fu costituita da Meyer con Antoine Bernheim, l’attuale presidente di Generali, per rilevare dalla Montedison di Eugenio Cefis un pacchetto di titoli Generali attorno al 5%, un asset decisivo per fare del binomio Mediobanca-Lazard l’azionista di riferimento della compagnia triestina.
Euralux sarà per anni uno dei misteri della finanza internazionale, bersaglio di interrogazioni e di accuse da parte di chi, come Cesare Merzagora, voleva scardinare i segreti di Cuccia e di Meyer. Un binomio che anche in America finì nell’occhio del ciclone quando la Lazard negoziò per Itt l’acquisto delle assicurazioni Hartford. Per problemi di carattere fiscale l’Itt aveva la necessità di parcheggiare 1,7 milioni di azioni Hartford fino al momento della fusione. In gran segreto Meyer individuò nell’amica Mediobanca la più affidabile custode per quell’operazione. Harold Geneen, il presidente di Itt, e Cuccia si incontrarono a Parigi negli uffici di Lazard per mettere a punto i dettagli del portage che agli occhi della Sec doveva apparire come una vendita vera e propria. Il grande mediatore dell’incontro fu Felix Rohatyn, consulente allora di Itt nonché l’allievo prediletto di Meyer, che però non accettò mai di succedergli lasciando via libera a Michel David Weill. L’affare si trasformò in uno scandalo che minacciò perfino il presidente Richard Nixon. L’Itt era già indiziata di aver finanziato il golpe cileno contro Salvator Allende. Un giornalista, Jack Anderson, riuscì a dimostrare il legame diretto tra l’acquisto della Hartford da parte di Itt e il pagamento di una tangente di 400mila dollari al Partito repubblicano di Nixon. Sembra che la tangente fosse stata versata proprio da Rohatyn, al quale la «Washington Post» dette il soprannome di «Felix the fixer», il faccendiere.
L’Itt è stata il laboratorio delle alchimie finanziarie di Meyer, che d’intesa con Geneen l’ha trasformata con un’ossessionante campagna acquisti da azienda di medie dimensioni in una conglomerata kolossal, che spaziava dalle iniziali tlc all’elettronica (Rayonier) e all’alimentare (Continental Baking), dalle assicurazioni (Hartford) al noleggio di auto (Avis).
E l’operazione Avis fu il capolavoro di Meyer. Il finanziere parigino aveva rilevato il pacchetto di maggioranza della società all’inizio degli anni 60 sborsando 7 milioni di dollari. Il bilancio era malmesso tanto da temere un fallimento. Un acquisto avventato? Ai più apparve tale. Ma non a Meyer che nel giro di cinque anni riuscì a convincere l’Itt a rilevare le sue azioni a un prezzo quasi triplicato di 20 milioni. Il principio al quale Meyer si è sempre ispirato era la legge del 150%: se alla Lazard si presentava l’occasione di acquistare un’azienda, lo si poteva fare solo se si fosse ragionevolmente sicuri di poterla rivendere a un prezzo superiore al 150% di quello al quale era stata pagata.
Ma la maggior delle operazioni concluse da Meyer ebbe ritorni ben più alti. Come quella Matador, dal nome della società che possedeva uno sterminato ranch nel Texas su cui il banchiere aveva messo gli occhi per Lazard. Di fronte al no degli azionisti, Meyer rilanciò a prezzi sempre più alti fino quattro volte il valore del corso delle azioni. A quel punto la Matador fu sua. Una follia? Fin da giovane André sapeva quello che faceva. Suddivise il ranch in 15 lotti intestandoli ciascuno a una società diversa che avrebbe poi venduto separatamente. Un break up mai visto prima di allora, che portò ben 15 milioni di dollari di plusvalenza a Lazard.
Meyer stava entrando tra i miti di Wall Street. Unico per carisma, il più bravo di tutti, ma anche lui non sfuggì al peccato originale della categoria dei banchieri d’affari, quello di essere al servizio delle ambizioni della proprietà o dei manager più che degli interessi dell’azienda. Tant’è vero che oggi l’Itt ha praticamente liquidato tutto quello che ha comprato ai tempi di Meyer. Ma quella politica di acquisizioni servì ad alimentare le fortune personali e la fama dell’amico Geneen. Che cosa resta di Meyer in Lazard? A dire il vero ben poco al di là del ricordo e del rispetto. Come del resto di Cuccia nella Mediobanca di oggi. Proprio perché unici per creatività, i grandi banchieri d’affari lasciano spesso un alone di leggenda, quasi mai eredi.
Aldo Bernacchi