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 2007  febbraio 06 Martedì calendario

FRANCESCO MERLO

Ogni volta che torno a Catania vado allo stadio Cibali, e ogni volta ritrovo, nella sovversiva e organizzata curva Nord, uno striscione che è sempre lo stesso: "Odio tutti". Non gli avversari, e neppure l’ arbitro, ma "tutti". Ebbene, se non è mai accaduto che qualcuno dei tutti sia andato a chiedere conto di quell’ odio è perché nulla stupisce allo stadio, e l’ odio vi è permesso e tollerato, con un risolino ironico magari, ma sempre chiudendo un occhio, e chiudendolo anche in segno di intesa. Lo stadio infatti è un luogo a statuto speciale, come Gibilterra in Spagna.E il tifo è un ideale spazio di protezione, come Manhattan nel film Fuga da New York, come il quartiere Scampia, come la banlieue parigina, dove l’ odio è un valore e dove una polizia che non ha strategie di guerra è sempre destinata a soccombere, magari per mano dei propri figli, come appunto a Catania, dove tra gli arrestati c’ è anche il figlio di un poliziotto. Se una volta si ammazzavano i gatti dei padroni per non ammazzare i padroni, ora si ammazzano i colleghi di papà per non ammazzare papà? "Voglio esser orfano" c’ è scritto su un muro di Catania, via Vincenzo Giuffrida, e siamo ben oltre lo schema di Pasolini, e oltre la Morte della famiglia. Siamo appunto nella piazza Spedini di Catania dove credevano, i poliziotti, che sarebbe bastata la loro presenza per scoraggiare i giovanissimi Gengis Khan rossazzurri. Al contrario, quella presenza li ha aizzati ed è cominciato un tiro al bersaglio contro le autoblindo che giravano a vuoto. Nessun altra polizia al mondo avrebbe subito inerme quella ferocia assoluta: la sassaiola, il lancio di bombe-carta rifornite dai commercianti senegalesi, l’ incendio dei motorini, l’ assalto con sbarre di ferro. C’ era pure un elicottero che si abbassava, faceva vento, emetteva fantastici fasci di luce rossa, con un effetto cinema che deve essere piaciuto molto ai beduini del deserto catanese che odiano tutti, ai giovani hooligans assassini che, proprio come i figli degli immigrati di prima generazione in Francia, cercano sensazioni forti. E dunque giocano irresponsabilmente con la vita, e picchiano e linciano come è capitato a Ermanno Licursi ucciso a pedate, o preparano agguati mortali, come nel caso di Raciti. E senza neppure la lealtà dello scontro, nascosti e protetti ora dal quartiere, ora dalla etnia, ora dalla religione, ora dallo stadio e dal tifo, che è l’ ultima nicchia del nativismo, non più allegria ma una malattia che esalta le radici localistiche segnalandone la definitiva scomparsa. L’ esibizione della forza non usata non ferma la violenza degli stadi, ma la esalta e la promuove, così nel calcio italiano come nel Bronx o a Clichy-sous-Bois, ma anche nelle sommosse anti G8 e in tutti i luoghi dove vige la pretesa di extraterritorialità che è impunità. Lo stadio protegge e nasconde. E i vigliacchi e gli attentatori stanno sempre nascosti nella folla. In questo senso lo stadio è l’ anomìa, la dimensione del fuorilegge, l’ impunità appunto, che nel calcio è molto antica, almeno quanto le corna dell’ arbitro. Ricordo che una volta, a Taormina, subito dopo un incontro di terza categoria, l’ arbitro si ritrovò faccia a faccia con il tifoso che, in quel piccolo stadio poco affollato, per novanta minuti, sgolandosi e dimenandosi, gli aveva dato del cornuto. «Ma lei - gli chiese - come si permette?». E l’ insolente, il quale sapeva che nessun tribunale lo avrebbe condannato, se la cavò così: «Le ho dato del cornuto, è vero, ma "calcisticamente" parlando». Insomma voglio dire che da sempre sappiamo e accettiamo con pittoresca ciabattoneria che accanto alla maggioranza che recita la commedia del tifo civile ed elegante ci sia un minoranza che ricovera allo stadio i suoi problemi pesanti e i suoi feroci conti aperti con il mondo. Se anche noi dagli spalti partecipiamo alla gara con una passione che l’ etica moderna non consente più alla vita; se anche noi offriamo allo stadio, magari con qualche cornuto "calcistico", o comunque con gli osanna e con i "crucifige", il nostro contributo di passione, la cui inutilità nulla toglie alla sua forza, come possiamo meravigliarci se, a Catania come altrove, il calcio è diventato il pretesto alla violenza di una nuova generazione malata che odia tutti, e alla quale è stupido applicare le vecchie categorie sociologiche: il sottoproletariato meridionale, gli esclusi, Frantz Fanon~ Ormai a Catania come a Parigi e come a Londra i protagonisti della violenza sono sempre i ragazzi, spesso i ragazzini. Mi racconta l’ insegnante di Inglese della scuola media nel quartiere Librino di avere scritto alla lavagna i nomi inglesi dei vari mestieri: teacher, plumber, lawyer. Ebbene, quando ha scritto policeman, un bambino di 13 anni si è alzato e l’ ha cancellata: «la parola sbirro qui dentro lei non la deve pensare neppure in inglese». Emanulea Audisio ha descritto l’ universo insensato del violento devoto, dell’ infoiato estatico, del giovane catanese che odia tutti ma che ha fatto calare sulla curva sud un enorme striscione, 20 metri per 30, con l’ immagine di Sant’ Agata in carcere, il viso reclinato verso la finestrella della prigione da cui arriva un fascio di luce divina. Ed è la faccia di una martire morente, come doveva essere la faccia di Raciti quando gli hanno spappolato il fegato: una somiglianza giustamente notata dal catanese Pippo Baudo che ha sentito su di sé questo omicidio e ha coraggiosamente chiesto la sospensione della festa, anche perché il giorno prima si era speso sul quotidiano La Sicilia: «il nord siamo noi». Palermo e Catania infatti arrivavano al derby stando al terzo e al quarto posto, e mai il calcio siciliano è stato così felice e appagante, a riprova che il pallone qui non c’ entra se non come pretesto, e che forse sarebbe bastato usare un idrante o solo una tecnica di polizia meno pedagogica. Di sicuro gli hooligans quindicenni e diciassettenni catanesi tengono tanto alla maglia rossazzurra quanto alla santa e sabato avevano un problema etnico-municipalista, quello della rivincita, non sulla sconfitta dell’ andata (5-3), ma sulle botte che avevano preso dai poliziotti palermitani, non solo sbirri dunque, ma razza contro razza, orientali contro occidentali, sicani contro siculi, bizantini contro arabi, Magna Grecia contro fenici, Roma contro Cartagine, sant’ Agata contro santa Rosalia. Sullo sfondo del tifo c’ è sempre un vecchio rancore, un Romolo e Remo che ritornano: Firenze contro Torino è disputa di città capitali; Milano contro Roma ca va sans dire, così Napoli contro tutti~, sono rivalità arcaiche e sostanziali che nelle partite di calcio diventano scontri di (in)civiltà. Ma sbaglia chi crede che l’ ultrà catanese avrebbe preferito vedere morto l’ ultrà palermitano. E’ il poliziotto che odiano, e sono disposti, contro il nemico comune, a tifare per entrambe le squadre in campo. E infatti in piazza Spedini i ragazzi che aspettavano i pullman dei palermitani per far loro la festa, hanno scelto di farla ai poliziotti. E va bene che ogni nuova generazione è malata, e anche la nostra lo fu nel Sessantotto, quando si mise in caccia di un altro potere, ma questi non riconoscono alcun potere, nessun principio di autorità, come ha denunciato Pietro Citati su Repubblica di martedì scorso, neppure l’ antipotere dell’ anarchia. Somigliano ai personaggi di Attali, e nel loro tifo c’ è tutta la ferocia e la nostalgia per radici che non hanno più: il mestiere del padre, il ricordo di una piazza, l’ impossibilità di usare il territorio, un viaggio appagante, un libro, la religione, che è musulmana nei comuni della banlieue di Parigi, ed è "agatina" a Catania: il culto, la storia, la teologia sul terreno dell’ identificazione municipalista. A Catania, che è ormai piena di cinesi e senegalesi, si ritrovano allo stadio il gioielliere xenofobo e l’ intellettuale sicilianista, e nella tribuna vip c’ è sempre un striscione "Non siamo catanesi ma catanisti", che è un rafforzativo, l’ orgoglio e la pretesa di essere come gli interisti, i milanisti e i romanisti. Il catanismo è l’ ismo dell’ appartenenza applicato al luogo di nascita, il tifo come spazio mentale in cui si esalta l’ ultima illusione arcaica fondata sul territorio, lo stadio come luogo della dimensione canina dell’ uomo: l’ uomo-cane che definisce l’ identità marcando il territorio con la propria orina.