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 2007  febbraio 07 Mercoledì calendario

Non mi convincono alcuni giudizi impietosi che ho letto sull’onorevole Luigi Facta, presidente del Consiglio dei ministri nel 1922: «Non seppe opporsi al fascismo», «La sua condotta fu esitante di fronte agli avvenimenti che culminarono con la marcia su Roma», «Il debole governo Facta»

Non mi convincono alcuni giudizi impietosi che ho letto sull’onorevole Luigi Facta, presidente del Consiglio dei ministri nel 1922: «Non seppe opporsi al fascismo», «La sua condotta fu esitante di fronte agli avvenimenti che culminarono con la marcia su Roma», «Il debole governo Facta». Se non sbaglio, l’onorevole Facta fu sul punto di dare una risposta anche forte con il ricorso all’esercito in funzione anti camicie nere, ma fu re Vittorio Emanuele III a rifiutarsi di decretare lo stato d’assedio (per la marcia su Roma) proposto dal Consiglio dei ministri. Il re, che nutriva simpatie per il fascismo, mentre Facta rassegnava le proprie dimissioni, incaricò Mussolini di formare il nuovo governo dando così una legittimazione ufficiale alla prova di forza dei fascisti. Che cos’altro avrebbe potuto fare Facta, di fronte a tutto questo? Michele Toriaco schiav54@ schiavonetevere.191.it Caro Toriaco, il governo Facta fu il punto di arrivo di una crisi particolarmente tormentata. Ivanoe Bonomi si dimise nel febbraio del 1922 per sottrarsi a una mozione di sfiducia presentata dai democratico- sociali su una delle tante crisi bancarie che hanno afflitto la nostra storia nazionale. Ma il vero motivo delle dimissioni fu la sua incapacità di conquistare il consenso e la solidarietà delle forze democratiche che avrebbero dovuto fare fronte comune contro il fascismo e la sinistra massimalista. Il successore ideale era Giolitti, ma don Sturzo, leader del Partito popolare, non amava lo statista di Dronero e mise una sorta di veto. Cominciò allora un giro di giostra da cui emerse con chiarezza che nessuno dei maggiori leader politici nazionali voleva addossarsi un compito così difficile. Preferivano aspettare, lasciare che qualcun altro andasse allo sbaraglio, sperare che il potere cadesse nelle loro mani al momento giusto. Facta non fu scelto perché era l’uomo forte, adatto a riprendere in mano le redini del potere. Fu scelto perché i primi attori, per il momento, preferivano restare nelle quinte. L’Italia ne ebbe la conferma in luglio quando il nuovo governo attraversò la sua prima crisi. Vi furono nuove consultazioni, nuovi giri di giostra e la roulette del sistema parlamentare italiano si fermò ancora una volta sul nome di Facta. Questo brutto spettacolo di tentennamenti, ambizioni e piccole furbizie ebbe l’effetto di di incoraggiare i fascisti ad agire con maggiore spregiudicatezza. Vi furono grandi adunate fasciste a Milano, in Emilia e nel Veneto. E quando, alla fine di luglio, fu proclamato un inutile sciopero generale, i fascisti ebbero l’occasione di dimostrare che erano perfettamente capaci di far funzionare i mezzi pubblici e tenere aperti i negozi. Da quel momento la situazione cominciò a precipitare. Fu creata una Milizia fascista comandata da un direttorio di cui facevano parte Italo Balbo, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi. E furono preparati i piani per una «marcia su Roma» che venne di fatto annunciata al congresso di Napoli del 24 ottobre. La reazione del governo fu un decreto sullo stato d’assedio che avrebbe dato alla forze armate il potere di arrestare i leader della marcia e disperdere le milizie. Il re arrivò a Roma da Pisa la sera del 27 ed ebbe un incontro con Facta che durò sino alle due del mattino. Si tenne successivamente, nel mezzo della notte, una riunione del consiglio dei ministri che approvò la proclamazione della legge marziale, e cominciò l’affissione dei manifesti nelle strade di Roma. Ma il decreto non venne mai firmato. Molti storici, fra cui Denis Mack Smith, si sono chiesti quali contatti personali e telefonici il re abbia avuto durante la notte, e quali fattori lo abbiano indotto a cambiare parere. Ma forse occorrerebbe rovesciare la domanda e chiedere che cosa sarebbe accaduto se il decreto fosse stato firmato. L’esercito, salvo qualche caso d’indisciplina, avrebbe avuto la meglio. Ma la situazione politica sarebbe stata quella dei mesi precedenti, i popolari avrebbero continuato a impedire il ritorno di Giolitti al potere e gli altri leader nazionali avrebbero continuato a tergiversare in attesa del «momento giusto». Forse il re decise che l’arrivo dei fascisti al potere avrebbe dato un salutare scossone alla politica italiana. Così dovette pensare, pur con molta riluttanza, Luigi Albertini, direttore del Corriere. Così pensarono tutti coloro che il 24 novembre dettero al governo Mussolini i pieni poteri in materia economica e amministrativa fino al 31 dicembre dell’anno seguente: Bonomi, De Gasperi, Facta, Giolitti, Orlando e Salandra. Quello che accadde dopo, naturalmente, è un’altra storia.