Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  febbraio 06 Martedì calendario

MILANO

L’idea è di provare con i concerti al buio. Non nel senso di spegnere le luci in sala, ma della locandina in bianco: nessun programma, neanche i nomi di eventuali solisti. Solo il direttore, quello sì, a marchio di garanzia. L’idea è di Daniele Gatti, autorevole maestro del podio internazionale, nei giorni scorsi applauditissimo alla Scala con un Lohengrin che ha entusiasmato pubblico e critica. Quasi un preludio al grande appuntamento di Bayreuth del 2008 con Parsifal.
Milanese, 46 anni, un curriculum che comprende la guida della Royal Philharmonic di Londra, di Santa Cecilia, del Comunale di Bologna, Gatti è direttore antidivo per eccellenza, semplice e spontaneo, forse un po’ timido, ma capace di farsi sfuggire un sorriso schietto, dolce, da ragazzone di una volta. Magari un po’ disobbediente alle regole, con quel grano di saggia follia necessario per cambiare le cose. Persino nel mondo compassato della «classica». Così, ecco la proposta un po’ provocatoria dei «concerti al buio».
«La cosa bella dell’andare a teatro è non annoiarsi – assicura ”. Ma se so sempre in anticipo cosa mi aspetta, il rischio della routine è alto. Perché allora non inserire in un cartellone, quattro o cinque serate "a sorpresa"? Dove si va a sentir musica a occhi chiusi e orecchie ben aperte, pronti a lasciarsi sorprendere, emozionare, da note inattese». Alla platea e alle sue esigenze, il maestro presta un’attenzione particolare. Pronto a sorvolare su quei peccatucci veniali di recente, a suo dire, eccessivamente criminalizzati. «Non si può bacchettare il pubblico su ogni cosa, per come si veste, perché talora esprime il suo dissenso, perché qualche volta si dimentica il telefonino acceso. Ci si lamenta che la musica classica è poco frequentata, ma mi pare che si sta facendo di tutto per rendere la vita difficile a chi ci prova».
Tanto più, aggiunge, che tutto questo accade ovunque: «Anzi, all’estero la fruizione delle sale da concerto o dei teatri lirici è ben più disinvolta. E nessuno si scandalizza se non vai in abito da sera... Certo, alcune regole di buona educazione valgono ovunque, il silenzio durante un’esecuzione è auspicabile, sarebbe meglio applaudire solo alla fine di un brano e magari non parlottare con il vicino. Ma alla fine... Siamo italiani, per carattere un po’ indisciplinati, un po’ caciaroni. Pazienza. Quel che conta è che il pubblico sia vivo e che ami la musica. Io non sono qui per insegnare niente a nessuno, sono solo grato a chi viene a sentirmi».
Con il pubblico di Milano l’intesa è scattata immediata. «E anche con l’Orchestra della Scala. Mancavo da tanti anni, ci siamo ritrovati come vecchi amici. Alcuni di loro erano miei compagni di Conservatorio. Per le prossime stagioni l’appuntamento sarà con Wozzeck e Don Carlos ».
Però, certe esternazioni un po’ troppo vivaci, non hanno risparmiato neppure il suo Lohengrin:
ovazioni per lei, fischi per l’allestimento... «Certo, non fa piacere quando si ricevono, ma chi fa questo mestiere deve metterli in conto. E poi chi si agita, chi strepita, è uno che ama questo mondo. La lirica è sanguigna. Un po’ come il calcio. Da tifoso dell’Inter quale sono lo so bene».
Insomma, i buu sono leciti, in teatro e allo stadio? «Io personalmente non ho mai gridato, nè qui nè lì. Se qualcosa non mi piace, non applaudo o me ne vado. E il silenzio è ben peggio di qualsiasi rimostranza».
D’altra parte, prosegue, se sai far bene il tuo mestiere, nessuno si annoia, nessuno se ne va o ti sbeffeggia. «Nemmeno quei giovani tanto temuti nelle sale da concerto».
Però, se a scuola si facesse un po’ di educazione musicale... «Educazione di che? Cosa serve che ti insegnino chi era Beethoven, se appena torni a casa, entri in un supermercato, accendi la radio senti solo canzonette? L’educazione musicale è come l’ora di religione: inutile. Si tratta di amore, non di nozionismo. Sono cose che devono nascere altrove. In famiglia per esempio. Mio padre, quand’ero bambino, alla sera mi faceva ascoltare qualche disco. Una mezzoretta di musica prima di andare a letto, una volta la Pastorale di Beethoven, un’altra la Quarta di Brahms... E poi la scoperta di Bruckner, Mahler... L’amore per la musica, la sensibilità all’ascolto nascono così».
Col tempo sono diventati una passione, un impegno. «Direi una missione. Il mestiere del direttore è un misto di artigianato e di esoterismo. Più tanta solitudine. Un po’ come fare il prete...». Ma almeno la musica migliora l’uomo? «Certo. Lo peggiora solo quando ci sono stupide invidie, quando si dimentica che noi artisti siamo solo al suo servizio. Non per far brillare la nostra luce».