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 1996  settembre 24 Martedì calendario

Può la matematica contribuire a farci capire qualcosa del processo ad Andreotti? Può sembrare strano, ma sono proprio le vicende del processo Andreotti che mi hanno aiutato a spiegare un concetto matematico agli studenti del primo anno

Può la matematica contribuire a farci capire qualcosa del processo ad Andreotti? Può sembrare strano, ma sono proprio le vicende del processo Andreotti che mi hanno aiutato a spiegare un concetto matematico agli studenti del primo anno. La procedura dovrebbe essere reversibile. Proviamoci. Si comincia con Archimede. Fu lui a dimostrare nel III secolo a.C., che il numero dei granelli di sabbia nell’universo, per quanto molto grande, è un numero finito. Fu usata allora, per la prima volta, una proprietà delle grandezze che ha preso il nome di ”proprietà archimedea”. Le grandezze usuali che servono per misurare le cose, ad esempio i metri, i chilometri e i millimetri, ma anche le ore, i minuti, i secondi, gli anni, i secoli, e così via, hanno la ”proprietà archimedea”. Questo significa semplicemente che se si sommano assieme tante piccole grandezze si può sempre raggiungere una grandezza anche enorme. Con un milione di millimetri si raggiunge un chilometro, con due milioni lo si supera di gran lunga. Con cinque miliardi di secondi si supera il secolo. Non importa quanto sia piccola una goccia o un granello di sabbia: con un numero finito di gocce si riempie il mare, con un numero finito di granelli di sabbia si riempie il mondo. Questa proprietà sembra ora così naturale che è difficile per uno studente del primo anno universitario capirne l’importanza. Esistono, si chiede lo studente intelligente, grandezze che non godono della proprietà archimedea? La risposta è sì, ma è difficile darne un esempio alla portata degli studenti. Leibniz tre secoli fa aveva provato a usare grandezze non archimedee (gli infinitesimi) per fondare ciò che ancora porta il nome storico di ”calcolo infinitesimale”. Ma il tentativo, abbandonato dai matematici nell’Ottocento, è riuscito solo in questo secolo, negli anni Sessanta, a opera di un matematico israeliano: Abraham Robinson. I suoi metodi però non sono alla portata degli studenti del primo anno. Eppure le grandezze non archimedee esistono in natura, e non solo nei libri di matematica. Da quando è cominciato a Palermo il processo ad Andreotti, anche l’insegnante del primo anno universitario può attingere all’esperienza di tutti i giorni per dare un esempio di grandezza non archimedea. Supponiamo di considerare come ”grandezza” il valore probatorio di una testimonianza o di un indizio. Più testimonianze o più indizi concordanti in generale si sommano e possono raggiungere una prova conclusiva. Proprio come sommando i centimetri si arriva ai metri e ai chilometri. Ma è sempre cosi? Sembra invece che in questo caso le grandezze possono anche essere non archimedee. Ad esempio le testimonianze per sentito dire. Prendiamo una tipica testimonianza del processo Andreotti. Il testimone afferma di aver sentito dalla viva voce del signor Salvo che Andreotti (anzi zi’ Giulio) era un buon amico del Salvo stesso. Il signor Salvo è morto e non può né confermare né smentire. una testimonianza di scarso valore per sapere se Andreotti era in effetti amico del signor Salvo. Ma qualche valore lo ha. E allora di quante simili testimonianze avremo bisogno per raggiungere la prova provata che Andreotti conosceva il signor Salvo? La risposta è che nessun numero per quanto alto di testimonianze come questa sarà mai in grado di arrivare a una prova. Si potrà al più provare che il signor Salvo diceva a molte persone di essere amico di Andreotti. Ecco un esempio di grandezza non archimedea: sommando tantissime testimonianze per sentito dire non si arriva mai a provare un fatto. Questo significa che le testimonianze per sentito dire hanno valore zero? Così ritiene in generale la giurisprudenza anglosassone. Le testimonianze per sentito dire utilissime nelle indagini di polizia, sono escluse dalle aule di giustizia. Non solo non se ne deve tener conto, ma si deve evitare perfino che i giudici popolari le ascoltino perché potrebbero esserne indirettamente influenzati. Diversa e apparentemente più ragionevole è la prassi nei nostri tribunali. In Italia i giudici popolari non decidono da soli, ma assieme a magistrati esperti di diritto, che dovrebbero essere in grado di capire e spiegare quale peso dare a una testimonianza per sentito dire. Perciò queste testimonianze sono ammesse. Dopo tutto nessuno nega che anche una testimonianza per sentito dire abbia qualche valore, sia pure infinitesimo. Che male c’è a sentirla in aula? Ma se davvero i magistrati fossero ben coscienti del carattere ”non archimedeo” delle testimonianze per sentito dire che bisogno avrebbero di sentire la stessa diceria confermata da più fonti? Insomma se la somma di qualsiasi numero di testimonianze per sentito dire non può mai raggiungere una frazione della prova di un fatto, a che serve sentire mille volte la stessa diceria? Per accertare una diceria basta una testimonianza, ma non bastano mille dicerie per accertare un fatto. Viene quindi il dubbio che i magistrati non sappiano sempre trattare le grandezze non archimedee, anche se questo non toglie nulla alla loro intelligenza. Non è allora più saggia la giurisprudenza anglosassone che esclude in linea di principio le testimonianze per sentito dire? Non si potrebbero almeno limitare a una o due le testimonianze per sentito dire del medesimo fatto? Certamente si avrebbe il vantaggio di ridurre la lunghezza, la complessità e il costo dei processi. Ad esempio nel processo di Palermo contro il senatore Andreotti ci sono (secondo il sunto dei capi di accusa pubblicato dal professor Arlacchi) solo due testimonianze dirette di contatti con i capimafia. Se ci si fosse concentrati su queste testimonianze per valutarne l’attendibilità e il valore probatorio rispetto all’imputazione, il processo sarebbe già concluso.