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 2002  marzo 21 Giovedì calendario

Ad Algeri sono sparite le barbe islamiche, ma il socialismo c’è ancora, Il Sole 24 Ore, giovedì 21 marzo 2002 Algeri

Ad Algeri sono sparite le barbe islamiche, ma il socialismo c’è ancora, Il Sole 24 Ore, giovedì 21 marzo 2002 Algeri. In Algeria la letteratura svolge ancora una funzione fondamentale, insostituibile: «I libri servono a evitare che la memoria, la nostra memoria degli eventi sia oscurata del tutto dalla storia ufficiale» dice Mohamed Magani, scrittore che vive tra Algeri e Berlino (in Italia ha pubblicato Estetica di macellaio per le Edizioni della Meridiana, presso le quali sta per andare in stampa Diario di un tempo berlinese). Magari non esagera. L’Algeria è un Paese che, a tratti, sembra non voler ricordare. Riflettere sul passato è un esercizio doloroso, una ferita sanguinante irrimediabile, che non riesce mai a rimarginare: l’indipendenza venne raggiunta con una guerra di liberazione costata a seconda delle fonti, da 300 mila a un milione di morti. Qui gli anniversari sollevano ricordi brucianti. Qualche giorno fa si sono compiuti quarant’anni dagli accordi di Evian con la Francia del generale Charles De Gaulle: 18 marzo1962. Poi ottenuta l’indipendenza, si scatenò un vortice di vendette di massa, il massacro di 150 mila algerini, gli Harkis, colpevoli di aver collaborato con il regime coloniale. Nel 1963 fu la volta della repressione della rivolta dei berberi della Cabilia, che anche l’anno scorso si sono di nuovo sollevati: un centinaio di morti, in una jacquerie contro il potere centrale che mette a rischio la regolarità delle elezioni legislative del prossimo 30 maggio. Poco più di dieci anni fa, l’11 gennaio 1992, iniziava, con il colpo di Stato militare, l’ultimo massacro: guerra civile e terrorismo islamico sono costati ufficialmente 100 mila morti – ma forse sono 150-200 mila – e 20 miliardi di dollari. Le perdite umane e sociali di questa seconda battaglia di Algeri, allora oscurata dalla guerra civile bosniaca, sono inestimabili: la classe media è stata annientata, migliaia di algerini sono emigrati all’estero con ogni mezzo, il Paese ha perso 45 mila tra ingenieri, medici e quadri tecnici, gli intellettuali, nel mirino degli integralisti e della repressione poliziesca hanno in gran parte abbandonato il campo. Eppure l’Algeria, da quando si sono rarefatti i massacri che avevano attirato l’attenzione dei media, è stata dimenticata da tutti. Con l’eccezione della Francia, dove stanno finalmente riaffiorando le memorie e le confessioni della prima battaglia di Algeri: i massacri e le torture coloniali degli anni 50. L’11 settembre 2001, con l’attentato alle Torri Gemelle di New York, ha riportato l’Algeria sulla scena internazionale, come il Paese che ha saputo vincere il terrorismo integralista. Il presidente Bouteflika è stato ricevuto in pompa magna dal presidente Usa George Bush per la seconda volta in quattro mesi; poi Algeri ha firmato l’accordo di associazione con l’Unione europea, in sospeso da anni, e ha riscadenzato con i creditori un debito estero che divorava le entrate di gas e petrolio: sono i dividendi economici e diplomatici raccolti da un Paese che per anni, con i suoi gasdotti sottomarini, è stato soltanto ”Corano e metano”. Ma dov’è la vittoria contro gli islamici che un tempo imperversavano a Bab el Oued? La risposta si legge, in superficie, nelle strade di Algeri. Si legge nelle vie del centro, che si ritagliano un percorso tortuoso nella Casbah e si legge anche nelle periferie, sempre più terremotate dalla speculazione edilizia e sempre meno popolate dai profeti dell’Islam, che più discretamente continuano a predicare sotto le volte delle moschee i loro sermoni integralisti.  questo che colpisce, tornando ad Algeri dopo due anni: sono sparite dalle strade le barbe islamiche, le djellabah bianche sono state sostituite da universali giubbotti di pelle nera, le ragazze hanno lasciato a casa il velo ed escono truccate e ondeggianti sui tacchi. Gli hittistes, letteralmente «coloro che stanno appoggiati ai muri», adesso aspettano un lavoro rasati di fresco e con i capelli a spazzola; ma come prima ingrosseranno l’esercito dei senza lavoro: il 30-35 per cento di disoccupati, in un Paese dove il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni, segno che la bomba demografica è ancora ben innescata. Accantonata la moda islamica, Algeri sembra una città più balcanica che mediterranea. Forse perché questa è l’ultima sponda dove resiste l’eredità del ”socialismo reale”, appesantita da un fardello di burocrazia maghrebina. Una dozzina di anni fa dopo la ”rivolta del couscous” del 1988, il regime fu costretto a tentare di riformarsi con un accenno di pluralismo. Uno sforzo tragico, perché si consumò la separazione tra il partito unico, l’Fln, lo Stato e l’Esercito, il guardiano della Repubblica. Il risultato fu che, con l’Fln in piena crisi, lo spazio sociale e politico fu occupato dal Fronte islamico di salvezza, il Fis, mentre Stato e generali mantennero il monopolio su tutto il resto, cioè la rendita energetica e l’economia. Quando, con il colpo di Stato contro il Fis, vittorioso alle elezioni del dicembre 1991, fu chiaro che Le Pouvoir non intendeva spartire né il Governo, né la rendita del gas, gli islamici, fallita la via legale, si buttarono armi in pugno alla macchia, e iniziò la macelleria algerina. Gli algerini sono stati massacrati da fucili e coltelli, ma anche dalle ideologie più contrastanti, in uno shock culturale senza pause, che ha innescato un cortocircuito di massa. A parte la complessa eredità della lunga dominazione ottomana, il colonialismo francese ne volle fare una parte del proprio territorio metropolitano. Gli algerini furono costretti a diventare francesi, e i francesi si ubriacarono di Algeria. Ci volle il realismo del generale De Gaulle per portarli a Evian, la città dell’acqua minerale, in uno stato di sobrietà. Poi arrivarono i capi della resistenza, e soprattutto i colonnelli transfughi dall’esercito coloniale: furono loro a gestire il potere, mettendolo in mano ai profeti del socialismo. Qualche buona idea, molte confuse e velleitarie. Mancava soprattutto il materiale umano per realizzarle: al momento dell’indipendenza l’Algeria, scacciati gli harkis, contava in tutto su una sessantina di laureati. Fu un disastro, seguito subito dopo da un altro dramma: l’arabizzazione, il cui alfiere fu il presidente Boumedienne. Vennero importati dal Medio Oriente docenti di arabo, per insegnare agli algerini che non stava bene parlare quel loro pittoresco franc-algérien, ricco di inflessioni dialettali, di espressioni spagnole, berbere, portoghesi e persino siciliane. Molti anziani continuano a non capire l’arabo classico degli speaker televisivi e del presidente Bouteflika. Oggi si cambia registro. La nuova moda è una miscela di capitalismo ed economia di mercato. Lo Stato - è il nuovo slogan della terza battaglia di Algeri - si ritira dall’economia. E vorrebbe vendere tutto: tranne il gas e il petrolio le cui chiavi, naturalmente devono restare ben custodite. Ma, per ora, non emerge un nuovo benessere. La risacca del socialismo algerino tiene a galla soprattutto vecchi e nuovi ricchi di una classe privilegiata ristretta. Gli altri si difendono come possono; con il contrabbando, il trabendo, e con un’evasione fiscale da record. Chi ha vinto, allora, l’onda verde e sanguinosa dell’Islam algerino, nutrito di arabizzazione forzata, coccolato dai petrodollari degli sceicchi del Golfo, infoltito dalle schiere dei reduci dell’Afghanistan, manipolato al punto giusto per esplodere in faccia a questo Paese devastato? «Sono stati gli algerini, non i generali dell’esercito, a vincere la battaglia contro gli islamici. Sono stati gli algerini, che prima li hanno sostenuti, per protesta contro il potere, e poi li hanno rifiutati». Lo dice un ex generale, Rashid Benyelles, che partecipò all’operazione di pacificazione lanciata dalla Comunità di Sant’Egidio e provò a convincere l’allora presidente Zeroual a trattare con il Fis, quando il partito islamico sottoscrisse, a Roma, una carta in cui si impegnava a rispettare pluralismo e diritti umani. E lo conferma il vicedirettore del ”Watan”, Reda Bekkat: «Sono stati gli algerini a resistere, anche se la storia non è finita e si presta ad altre manipolazioni». Oltre un millone di soldati, tra Esercito, gendarmeria e milizie varie, sono schierati sul fronte antiterrorismo, con una spesa annua di circa due miliardi di dollari. Ecco perché, come dice lo scrittore Magani, la memoria è così scomoda in Algeria. Adesso deve andare in onda una nuova versione della storia, in cui gli integralisti, amnistiati, hanno sostituito il kalashnikov con la ventiquattrore dell’uomo d’affari. Le Pouvoir continua a riciclarsi: cambiano le facce, ma non i metodi proteiformi. Ecco perché, uscendo da questa astronave della storia e dell’ideologia precipi-tata su un’Africa mediterranea che gronda memorie sanguinose, non si prova sollievo dalla vittoria sull’integralismo, ma soltanto un doloroso rispetto per questo popolo. Alberto Negri