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 2006  febbraio 02 Giovedì calendario

Segreti da generale. L’Espresso 2 febbraio 2006. Sono due valigie di plastica, una nera e l’altra marrone

Segreti da generale. L’Espresso 2 febbraio 2006. Sono due valigie di plastica, una nera e l’altra marrone. Coperte di polvere. Abbandonate per decenni. E zeppe di documenti. Carte e appunti che riguardano alcuni passaggi chiave della storia italiana. Dai retroscena del referendum su Monarchia e Repubblica alle interferenze occulte nelle campagne elettorali. Dagli inconfessabili ricatti a Paolo VI e al Vaticano alle pressioni americane sul neonato centro-sinistra. Dagli abusi dei servizi segreti ai lati oscuri della nostra magistratura. Dalle astuzie del giovane ministro Andreotti alle cortesie tra Pci e carabinieri. Un patrimonio di informazioni che è di straordinaria attualità, nel momento in cui i Ds accusano di operazioni sotterranee proprio i servizi segreti, e nella bagarre elettorale rispunta la celebre "atmosfera da Sifar". Tanto più che a raccogliere questo materiale, negli anni Sessanta, è stato il generale Giorgio Manes, figura tuttora affascinante. Un uomo che ha vissuto due vite, entrambe estreme. La prima occupata da una splendida carriera, partita nel 1924 con i gradi di sottotenente, proseguita con l’impegno nella guerra partigiana e culminata nel 1963 con la promozione a vicecomandante dei carabinieri. La seconda, più drammatica, iniziata nel 1965 e segnata dagli attriti con il comandante dell’Arma Giovanni De Lorenzo, dal quale si sentì discriminato. Un senso di frustrazione che continuò all’arrivo del nuovo capo, Carlo Ciglieri. Il quale nel maggio del 1967 gli affidò una scivolosa missione: scoprire chi dell’Arma avesse passato informazioni a "L’espresso", autore di un clamoroso scoop sul presunto golpe progettato nel ’64 da De Lorenzo, con la complicità del presidente della Repubblica Antonio Segni. Manes nel suo rapporto sostenne l’esistenza del colpo di Stato abortito, e in cambio ebbe l’isolamento totale. Oltre all’accusa di avere travalicato i limiti del mandato. Da quel momento la sua salute venne meno. Un primo infarto lo colpì nel 1968. Un secondo giunse l’anno successivo. Finché il 25 giugno 1969 morì a Montecitorio dopo avere bevuto un caffè. «Stava per deporre alla Commissione sul golpe», dice il figlio Renato: «Non arrivò vivo, e molti tirarono un respiro di sollievo». Due mesi prima era morto il generale Ciglieri, in un incidente stradale che a molti parve omicidio. E nel ’68 era toccato a Renzo Rocca, ex direttore dello strategico ufficio Rei (Ricerche economiche e industriali): ufficialmente suicida, più probabilmente ucciso. «Un clima terribile», ricorda Renato Manes. «Carabinieri e servizi ci tormentavano. Volevano le carte di mio padre. Telefonavano, venivano a trovarci, ci sorvegliavano. Alla fine, inviammo il rapporto sul golpe e carte di minore importanza. Il resto degli appunti finì in due valigie che depositammo in banca». Ora quelle valigie sono ricomparse. Le ha conservate fino alla scorsa estate la signora Maria, vedova Manes. Poi anche lei è morta, e il figlio le ha riscoperte per caso. «All’interno», testimonia, «ci sono buste con l’intestazione "Riservatissimo", appunti dell’epoca, veline di informatori, fotografie e schede militari». Centinaia di fogli ai quali si aggiungono sei agende, custodite in casa Manes, che coprono il periodo dal 1965 al 1969. Qui l’alto ufficiale scriveva note riservate e appuntava notizie ricevute da politici e militari. «Nel 1990», dice il figlio, «Felice Casson le fotocopiò, pensando servissero alla sua inchiesta su Gladio. Un’altra copia, quasi illeggibile, è stata consegnata alla Commissione stragi». Dopodiché soltanto Gianni Cipriani, giornalista e scrittore, ha pubblicato interessanti stralci di quelle pagine, forniti dalla famiglia Manes. Per il resto, silenzio. Le accuse del generale, i suoi lunghi memoriali, sono rimasti a ingiallire. Dimenticati nell’appartamento romano dove "L’espresso" li ha consultati. E dove ha trovato l’inedito episodio sul cardinale Giovanni Montini, papa nel 1963 con il nome di Paolo VI. Di lui il vicecomandante Manes scrive nell’agenda del 1967. Un periodo cruciale, per i palazzi vaticani. Quello stesso anno venivano compiuti i primi passi per la revisione dei Patti lateranensi. Intanto, nell’enciclica "Populorum progressio", il pontefice auspicava una più equa distribuzione mondiale delle ricchezze, giustificando la rivoluzione in caso di tirannia evidente. Il tutto mentre alla corte pontificia venivano attuate importanti riforme, nel segno di una rigida sobrietà. Scelte che non piacquero a tutti, anzi, e che secondo alcuni avrebbero scatenato reazioni sotterranee. Fatto sta che Manes, alla pagina del 30 marzo, riporta quanto riferitogli dalla fonte "Ururi", nome in codice creato per il socialdemocratico Mario Tanassi («Dal paese dov’era nato», spiega Renato Manes). «Il Papa», si legge, «preme su Moro (allora presidente del Consiglio, ndr)», e «anche monsignor Costa (dirigente dell’Azione Cattolica e collaboratore del pontefice, ndr) fu da lui». La ragione è di massima segretezza: Paolo VI, scrive Manes, «è ricattato su trascorsi giovanili. La Dc vorrebbe salvarlo, ma S. è deciso. Prelati ripetutamente da lui per cercare appoggio ad un compromesso». Ipotizzabile è che dietro a quella "S." ci fosse il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che di Tanassi era compagno di partito. E individuabile, secondo gli esperti di cose vaticane, è anche l’oggetto del ricatto. A lungo si vociferò dell’omosessualità di papa Montini, il quale avrebbe avuto una relazione con l’attore Paolo Carlini. Nel 1976 lo scrittore francese Roger Peyrefitte arrivò a mettere nero su bianco tali voci, costringendo il Santo Padre a una pubblica replica. Dunque poteva essere questo, nel ’67, l’incubo di Montini. Anche se Renato Manes, tra le confidenze domestiche del padre, ricorda altri discorsi. «Accennò a una relazione di Montini con una suorina conosciuta in Africa», spiega: «Una vicenda di cui pochissimi erano al corrente, e che precedeva la sua nomina a pontefice». Quale che sia la verità, resta il peso di una vicenda gravissima. Il capo della Chiesa messo all’angolo dalla politica, costretto a inseguire protezioni, a sguinzagliare collaboratori. Ma c’è di più. Nelle agende di Manes, vari passaggi riguardano il Vaticano, e tutti o quasi sono legati alla figura di De Lorenzo. «Monsignor Crovini (del Santo Uffizio) fu incaricato da monsignor Dell’Acqua di intervenire presso Andreotti a perorare la nomina di D. L. a capo di Stato maggiore dell’Esercito», si legge il 6 marzo 1967. Una conferma, scrive Manes, che il generale «ricattava il Vaticano sulla scorta di copie foto, dagli autografi consegnati alla Santa Sede». Ricatto che, stando agli appunti del vice-comandante, avrebbe avuto origine nel marzo ’56 con papa Pio XII, svolgendosi poi negli anni Sessanta. «Rosati (forse William Rosati, dicono gli esperti di intelligence, più tardi iscritto alla Loggia P2, ndr) portò fotocopia» di documenti riservati in Vaticano per «proporre l’acquisto degli originali», scrive Manes. Tali carte furono fornite «da suor Pasqualina (stretta collaboratrice di Pio XII, ndr)», e la copia finì nelle mani di De Lorenzo, il quale disse che «l’avrebbe distrutta». Il contenuto di quei documenti rimane un mistero, come non è chiaro l’esito dell’intrigo. Certa invece è la pressione che il Vaticano continuò a esercitare a favore di De Lorenzo, confermata da un appunto di Manes dell’aprile 1967. «Padre Martegani, già della Civiltà cattolica ora alla Radio vaticana», si legge, è «intervenuto da Mario il gr. (altro pseudonimo di Tanassi, ndr)» per smuovere il socialdemocratico ministro degli Esteri Tremelloni «a favore dell’Ingegnere (appellativo dato da Manes a De Lorenzo, ndr)». La risposta ottenuta viene però giudicata «agnostica». Al che De Lorenzo cerca di «raccogliere elementi per mettere in imbarazzo» Tremelloni, ricattandolo con il cosiddetto «sito dei Pellegrini: una zona di costruzioni nella quale ottenne un appartamento pagato 17 milioni, che ora ne vale circa 60». Questo è l’archivio Manes: il potere visto da dentro. Una prospettiva fatta di connivenze e manovre illecite, dove tutti tramano e tremano. Un fascio di carte che, qualunque argomento tocchino, trovano protagonista il generale De Lorenzo. L’uomo che nel 1955 era stato nominato capo del Servizio informazioni delle forze armate (Sifar). E che dopo la promozione a comandante dei Carabinieri, nel 1962, sarebbe diventato capo di Stato maggiore dell’Esercito (1965). Una figura incardinata tra alleanze politiche, economiche, religiose: dunque cruciale. E discutibile. «Per coprire gli abusi della sua gestione al comando generale dell’Arma e per mantenerne la completa disponibilità», scrive Manes nel 1967, «ha designato a succedergli il generale Ciglieri, che ritenne il più adatto allo scopo (...). Così ha continuato a regolare la vita dell’Arma negli aspetti più minuti, e a mantenerne il controllo assoluto». Ad esempio, racconta Manes, «ai primi di marzo fece sistemare in un locale dello Stato maggiore dell’Esercito un impianto radio di grande potenza, che lo metteva in grado di inserirsi a ogni momento nella rete autonoma dei Carabinieri». Da lì il generale impartiva «ordini diretti ai capi», senza che nessuno osasse denunciare l’abuso. Anche perché, si legge nell’agenda del 1965, forte tra i carabinieri era il timore dei trasferimenti, che De Lorenzo decretava anche «a scopo intimidatorio, di rappresaglia, di vendetta». Pratiche «insensate», sostiene Manes, che avevano portato l’Arma ad accumulare «un miliardo di deficit». Cifre e dettagli tutt’oggi impressionanti. Che vanno integrati, per coglierne la gravità, con altri retroscena sulla scalata al potere del generale. Storie che s’innestano nelle gimcane politiche degli anni Sessanta, quando la consuetudine democristiana fu interrotta dal primo governo di centro-sinistra. Tempi che De Lorenzo affrontava con evidente disinvoltura, passando dalla devozione atlantica all’ammiccamento monarchico, fino al tentato salto sulla carovana socialista. Il tutto violando regole e accordi presi, sopra e sotto banco. Il 12 giugno 1965, ad esempio, Manes scrive di un imbarazzante fascicolo che un fedelissimo di De Lorenzo «fotocopiò per lui illecitamente», quando divenne capo del Sifar. «Conteneva», si legge, «note che lo descrivevano come comunista». La sua auto, continua l’appunto, era stata «vista a una sede del Pci nella zona di Padova, e in altre località venete». Facile immaginare come avrebbero reagito, se informati, gli americani, poco propensi alle bandiere rosse. Ma ciò non avvenne. Il fascicolo, scrive Manes, divenne «introvabile», e la partita finì prima di cominciare. Ancora più sorprendente, per certi versi, è la doppiezza che avrebbe caratterizzato i rapporti tra De Lorenzo e il Partito monarchico, al quale il generale aderì dopo il 1967. Come hanno scritto Gianni e Antonio Cipriani in "Sovranità limitata", nel dicembre del 1964 il generale garantì «al principe Colonna che (...) era pronto ad assicurare tutti i poteri nelle sue mani al servizio della causa monarchica». Ma dalle note di Manes emerge un altro, importante retroscena, stavolta riferito al 1946, quando gli italiani dovettero scegliere tra Monarchia e Repubblica. De Lorenzo, si legge sull’agenda del 1965, racconta che «l’allora commissario Marzano» possedeva «un ingente deposito di armi», utili «per un colpo di forza nel caso il referendum fosse stato sfavorevole al re». Avendo però constatato che «nel nuovo ordine di cose Marzano aveva avuto un posto come direttore automezzi», il generale «diffidò di lui, sgombrando di notte le armi». Cosicché, «il giorno successivo, la polizia le cercò invano». De Lorenzo, scrive Manes, riferisce l’episodio per «sfatare la sua nomea di monarchico», scomoda per un eventuale sbarco a sinistra. Ma il fascino dell’episodio sta in ciò che sottintende: quando De Lorenzo punta qualcuno, o qualcosa, non molla. Come ha sperimentato Giulio Andreotti, allora giovane ministro della Difesa, con il quale ebbe un travagliato rapporto. «I primi tempi del suo avvento a ministro (1962, ndr)», scrive Manes, «(De Lorenzo) fu da questi tenuto a distanza». Per una valida ragione: «Aveva fatto informazioni su Andreotti e la sua segreteria». Inoltre, De Lorenzo «sparlava» del ministro perché «lo teneva a distanza, appoggiato da Gronchi (presidente della Repubblica)». Finché a smussare gli spigoli, per conto del generale, intervenne Giovanni Allavena, futuro capo del Sifar. «A ciò», si legge, «collaborò Evangelisti, manovrato a parte». E tutto andò per il meglio. «Anche perché, avvicinandosi il 1963, anno di elezioni, (Allavena) convinse (Andreotti) che (De Lorenzo) aveva poteri notevoli». Una scelta, quella di Andreotti, che non deve stupire. L’uomo, per quanto giovane, sapeva muoversi tra i poteri, e si copriva le spalle. «Con (Allavena) capo del Sifar», scrive ad esempio Manes, «(Tremelloni) rimane asservito ad Andreotti, suo strumento nella campagna elettorale con fondi che è facile procurare». Detto questo, in uno scontro con De Lorenzo nemmeno simili appoggi bastavano. Giovanni Leone, ad esempio, fu duramente colpito nel 1964, mentre era in corsa per la presidenza della Repubblica. In quel momento, confida a Manes un certo Rossi (probabilmente il generale Aldo, ndr), De Lorenzo sosteneva Amintore Fanfani, e si attivava in prima persona. Fu lui, scrive Manes, che «silurò il candidato Leone, facendo fare un fotomontaggio con la signora e l’autista tramite Sifar». E quando Leone, «vistolo su un giornale», si rivolse attraverso «Andreotti al Comandante generale», per chiedere l’apertura di un’inchiesta, fu liquidato con una bufala: «Quelli del Sifar», dice Manes, «hanno attribuito» la manovra «agli ambienti del Psdi». Giusto per depistare e spargere zizzania. Beffa nella beffa, in seguito lo stesso Fanfani avrà di che lamentarsi. De Lorenzo, si è visto, aveva fiutato l’aria del centro-sinistra, e cercava nuove alleanze. Ma in questo modo scontentava i vecchi alleati: «Ora», scrive Manes nel 1966, De Lorenzo «è inviso a Fanfani, avendolo venduto ai suoi avversari». «Anche gli ambienti vaticani», aggiunge, «lo guardano con diffidenza, dato che si appoggia a socialisti e comunisti». Timori confermati dal vice-comandante Manes, il quale ha conservato sei pagine scritte a penna, datate dicembre 1965 e ricevute dalla fonte Evelina; alias colonnello dei carabinieri Ezio Taddei, amico di Manes e suo devoto informatore. Una pioggia di notizie che spaziano dalle manovre di De Lorenzo per la nomina a capo di Stato maggiore dell’Esercito, ai contatti tra l’Arma e il Partito comunista. Fino alle avance degli americani ai riformisti nostrani. «Evelina», si legge nel documento, «ha avuto autorevole conferma circa l’attività spiegata da Icaro (cioè De Lorenzo, precisa a matita Manes, ndr) per procurarsi appoggi in seno al Psi, onde spiccare il suo ambizioso volo verso il sole (la nomina a capo di Stato maggiore, ndr). Nel recente congresso del Psi, il sottosegretario alla Difesa (Mario Guadalupi, Psdi), che ha sposato la causa di De Lorenzo, ha avvicinato un qualificato esponente socialista che chiamerò Farinata». Voleva chiedergli «le ragioni della sua opposizione al volo di Icaro; atteggiamento giudicato inspiegabile, dato che (a suo dire) il centro-sinistra aveva potuto essere sperimentato, ed avrebbe potuto ancora prosperare con l’appoggio prezioso di Icaro stesso (...)». Il sottosegretario precisò «che aveva pensato a un intervento prolusorio» di Farinata presso il Quirinale, dove «si era verificata una brusca battuta di arresto» per De Lorenzo. Ma riscontrando un «atteggiamento elusivo», passò alle minacce: «L’Organizzazione che fa capo a Icaro avrebbe potuto muoversi pro e contro Farinata», disse. «Comunque, pensaci bene! Se lo abbiamo come nostro amico, avremo tutto da guadagnare. potente, pericoloso e maneggia molti fondi (...)». Nello stesso periodo, il colonnello Taddei andò anche a trovare un certo Platone, pseudonimo dietro al quale si riconosce il professor Mario Spallone: medico personale di Togliatti, allora assai influente nel Pci e secondo alcuni contatto del Sifar a Botteghe Oscure. Quel giorno, era l’ottobre del ’65, Taddei racconta che «Platone chiamò al telefono il Tirapiedi (corretto da Manes in "Allavena", ndr)», il quale in breve tempo venne all’appuntamento. Si scambiarono saluti con euforia, abbracci e baci chiamandosi per nome», scrive Taddei. Dopodiché il capo del Sifar «riferì l’esito favorevole di una sua missione in Usa, ove (disse) avrebbe fatto una brillantissima figura, grazie proprio alle notizie avute da Platone. Ma soprattutto il discorso si portò sulle aspirazioni di De Lorenzo, con Allavena che «chiese a Platone il massimo appoggio presso Saragat, Nenni e altri esponenti socialisti per assicurare la nomina, prospettandogli i vantaggi per entrambi dal fatto che (il generale) avrebbe potuto disporre di tutto il bilancio». Per rafforzare «le sue argomentazioni», continua Taddei, Allavena confidò a Spallone «che i servizi americani stavano lavorando a tal fine, tanto che avevano posto a sua disposizione molti milioni se l’operazione fosse riuscita». Già così, il quadro sarebbe completo. Un uomo del Partito comunista che trama con il capo del Sifar, per giunta alla presenza di un ufficiale dei carabinieri. Una scena in perfetto stile anni Sessanta. Completata, stando a Taddei, da ulteriori due notizie riferitegli da Spallone. La prima era l’esistenza di un «tentativo di corruzione spiegato dai servizi Usa presso alcuni esponenti della sinistra». La seconda, che Spallone era stato «autorizzato dal Partito ad avere rapporti con l’Arma», dalla quale «fece comprendere di aver avuto notizie molto utili su alcuni esponenti politici». Pratiche usuali, in quel triangolo vizioso tra Sifar, carabinieri e politica. Ma che per Manes, numero due dell’Arma, restavano inaccettabili. «Tutto», scrive nelle sue note, «è affidato a pochi ambiziosi. Il resto è massa grigia, amorfa, parassitaria». D’altro canto, continua, pochi erano i settori della vita pubblica a mantenere un’integrità. Nella magistratura, ad esempio, i servizi a suo avviso vantavano protezioni e giudici fidati. «Il sostituto procuratore Sorichilli», scrive, «ha per segretario un maresciallo del Sifar, macchine in uso e buoni benzina. Il sostituto Vessichelli», aggiunge, è «nelle mani del Sifar» ed è «amico di Allavena», il quale «gli ha sistemato un cognato, tenente colonnello, nel Sifar a Roma». E la stessa spregiudicatezza riemerge, in quegli anni, quando al Sifar scoppia il celebre scandalo delle schedature. All’improvviso, gli italiani seppero che 157 mila personaggi (parlamentari e sindacalisti, industriali e sacerdoti), erano stati spiati. Parte dei dossier sparì, e molto si fece per non ritrovarli: «(Il comandante) Ciglieri», scrive Manes, «affidò l’inchiesta a un generale dei carabinieri legato a De Lorenzo e Allavena, dai quali in passato aveva ricevuto non leciti compensi. Fece cioè l’interesse di costoro a insabbiare (le indagini), affidandole a un docile organo inquirente». Quando poi si profilarono responsabilità penali, continua Manes, «lasciò che De Lorenzo convocasse a Roma il colonnello comandante la legione di Catanzaro, per incaricarlo di sondare e influenzare ambienti vicini al magistrato inquirente, sostituto procuratore generale Magrì». Il quale non soltanto subì pressioni sui parenti, ma fu anche «descritto come omosessuale». «In tutto questo», ricorda Renato Manes, «la desolazione di mio padre era assoluta. De Lorenzo l’aveva messo in disparte. Temeva la sua intransigenza e orchestrava accuse surreali, come presunte insubordinazioni o furti di mobili». Episodi dolorosi, dice il figlio, per l’orgoglio di un alto ufficiale. «Ma niente in confronto a quanto avvenne nel 1967, quando Ciglieri incaricò mio padre di indagare sul presunto golpe De Lorenzo». A quel punto, dice Renato Manes, «si scatenò la bagarre. I superiori non gli perdonarono di avere documentato l’effettiva preparazione del colpo di Stato. Lo misero sotto inchiesta, e ci rimase fino all’ultimo giorno». Per la cronaca, il rapporto Manes fu mutilato dal presidente del Consiglio Aldo Moro con 72 omissis, tolti soltanto nel 1990. Quanto al trattamento subito da Manes, illuminante è quanto ha scritto nel 1969, poco prima di morire. Sono le parole del collega carabiniere Istvan, il quale gli confida lo stato d’animo del generale Ciglieri. «(Ho) rimorso per Giorgio», confidò l’ex comandante dell’Arma. D’altronde «abbiamo occultato la faccenda della radio (con cui De Lorenzo controllava l’Arma, ndr): vuoi che lasciamo venire fuori quanto detto da Manes?». Riccardo Bocca