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 2004  novembre 11 Giovedì calendario

Privo del teatro barocco il trapasso dei despoti moderni si riduce a un’estenuante pantomima, La Stampa, 11/11/2004 Molti ci hanno pensato, tra loro anche gli infaticabili catalogatori di saggezze come Montaigne e Chateaubriand: raccogliere le ultime parole pronunciate dai personaggi celebri, redigere un catalogo di morti Grandi

Privo del teatro barocco il trapasso dei despoti moderni si riduce a un’estenuante pantomima, La Stampa, 11/11/2004 Molti ci hanno pensato, tra loro anche gli infaticabili catalogatori di saggezze come Montaigne e Chateaubriand: raccogliere le ultime parole pronunciate dai personaggi celebri, redigere un catalogo di morti Grandi. Perché non lo fecero mai? Forse sono stati solo prudenti. Prendete Arafat. Val la pena investigare le sue ultime parole prima di sprofondare in questo coma sguaiatamente esibito? E se fossero state il numero di un conto corrente, l’indirizzo di una banca? Dietro i Grandi autocrati ci sono quasi sempre uomini flosci, servitori mediocri e silenziosamente avidi, ma a loro tocca gestire il trapasso. Forse il Raiss ha avuto un guizzo per rimpiangere quel giorno a Beirut quando un cecchino israeliano lo tenne inutilmente sotto mira. Ma non lo consegnò all’epilogo intangibile dell’eroe. La morte di un leader politico può essere un fatto di cronaca o di storia. A seconda dei casi. nelle autocrazie, nei dispotismi che la morte del capo diventa un problema, dove bisogna aggiustare, rattoppare, sopperire, mondare: per impedire che la società si sfasci. Arafat appartiene al mondo dei comitati centrali, dei leader che danno ordini e ramanzine, che sanno di tutto, insegnano ogni cosa, hanno le chiavi della cassaforte, troneggiano su ogni argomento. Ai tempi previdenti di Don Ferrante, del gran teatro politico barocco, i Grandi avevano, giusta precauzione, accanto al letto il manuale del ben morire. Tutto era scritto: il contegno, le comparse, le frasi da pronunciare e i gesti da compiere. I più previdenti come Carlo Quinto facevano ripetutamente le prove dell’evento perché nessuno sbagliasse la parte. Invece per i dittatori moderni la morte non è mai prevista, annunciata, normale. Si scatena dagli abissi dell’imprevedibile. E soprattutto è fissata dalla volontà degli uomini, dalle loro necessità politiche. Perché con loro si paralizza lo stantuffo del società. Impiegarono due giorni gli uomini del Politburo per elaborare le quattro righe che cancellavano dalla storia il padre dei popoli: «Il cuore di Stalin compagno di lotta di Lenin e geniale continuatore della sua opera, guida sagace e educatore del partito comunista e del popolo sovietico ha cessato di battere». Stalin non poteva avere diritto a una agonia, non si poteva raccontare che l’uomo con cui il comunismo era diventato adulto potesse rantolare per ore per una emorragia cerebrale. Al despota moderno è negato al contrario di quello antico l’umile ovvietà del sospiro strozzato, del balbettio inintellegibile, del fremito agonico. Demoralizza, distrae, ammoscia. Per decifrare la debolezza del carrozzone sovietico bastava leggere quanto tempo occorreva ai dirigenti per dare l’annuncio della scomparsa del segretario generale. Si prolungava la vita degli uomini artificialmente per decreto del soviet supremo: trentasei ore per Kossighin, ventidue per Suslov, ventisei per Breznev «improvvisamente morto alle 8,30 del dieci novembre 1982». Non si ricorreva come per Franco ai miracoli della scienza medica, bastava la volontà demiurgica del Partito. Eppure c’era della ingenuità nella minuzia delle bugie cremlinologiche, i raffreddori che si rivelavano sempre letali, i tagli nelle sequenze televisive che nascondevano agonie che i successori di Lenin erano obbligati ferocemente a recitare in piedi trascinandosi su tribune festanti, stringendo mani con presumibile immenso dolore. Era la ritualità della morte, in un regime che aveva annunciato di aver cambiato l’uomo, a scandire il dopo: il gestore del funerale, il regista della mummificazione assumeva in quell’incarico il bastone del comando. Centoventidue giorni impiegò il metallurgico croato Josip Broz per morire. Era l’ultima fatica che gli chiedeva la Jugoslavia che aveva costruito con mano di ferro. Tempo necessario per mettere in piedi la grande finzione di cartapesta della dirigenza collettiva, per nascondere dietro il palcoscenico la mischia dei particolarismi tribali. Si intravedeva tra le quinte, anche lì, la dark lady, la inquieta trabordante Jovanka rinchiusa nella villa sulla collina di Dedinje. Perchè l’autocrate deve morire solo. Anche la agonia del Grande Timoniere è «divina». Non è sporcata da immagini, da bollettini medici, non si umilia dietro le miserie del battito cardiaco, della temperatura corporea. La storia non si ferma sempre con la morte, il destino degli autocrati si prolunga. Mao, decidono i dirigenti della Città Proibita, non sarà cremato, come vuole la tradizione. resterà nella teca di cristallo, imbalsamato. Da citare o maledire nelle battaglie degli eredi. Domenico Quirico