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 2004  marzo 12 Venerdì calendario

Grossolano, esagerato, efficacissimo: ritratto di Umberto Bossi, La Stampa, 12/03/2004 Sarà difficile fare a meno di Bossi

Grossolano, esagerato, efficacissimo: ritratto di Umberto Bossi, La Stampa, 12/03/2004 Sarà difficile fare a meno di Bossi. Per un po’ di tempo (auguri). In ogni caso: che paura. Chissà lui come la metterebbe, adesso, cosa potrebbe inventarsi su questo suo incidente e su quanti già l’avevano visto spacciato. Sui leghisti di Lampedusa che pregano; e su Adel Smith che invia telegrammi. Chissà come l’ha vissuta. Ora, pur essendo tra gli uomini politici italiani il più imprevedibilmente immaginifico, Bossi ha sempre mostrato una certa ritrosia a parlare di sé. Non ce n’è troppo bisogno, d’altra parte: basta osservarlo mentre vive, o meglio mentre dà vita al suo personaggio. I medici si sono dati 72 ore, per capire meglio. Ma intanto è impossibile togliersi di mente quel vocione, quei vestiti stazzonati, improbabili, quei travestimenti di scena, giacche, cravatte, camicie verdi, t-shirt con scritte d’inusitato leghismo, ohè. Quella voce roca, quei gesti ferini, quell’energia così teatrale, drammaturgica. Sembra incredibile pensarlo in un letto d’ospedale, Bossi. Fuori coscienza. Una visione che non resiste neanche un attimo all’ondata di immagini che viaggiano nella memoria. Mille palchi e sullo sfondo guerrieri, leoni, seguaci in adorazione. Scenari incredibili. Il rito dell’ampolla, sul Monviso, l’acqua del Po raccolta con una specie di preghiera druidica. Il catamarano. I gazebo «della libertà». Il muro intorno alla villetta di Gemonio, forse abusivo, forse no. Le nottate negli hotel di Ponte di Legno. Foto in piscina di lui che palpa una signorina. Ma anche le passeggiate con il codazzo a Montecitorio, a Roma ladrona. Pare di rivederlo una volta in un angolo di penombra, con Craxi ormai alla fine, e il leader socialista si commosse, a sorpresa, e anche Bossi ne fu turbato. Quanti ricordi buffi, anche, e grotteschi. Le sparate insurrezionali bergamasche; le falloforie contro la povera Boniver («Ah, bonassa!»); la proposta di macellare sul posto la mucca Ercolina, per farne bistecche. Spezzoni di tg, di ”Porta a porta” e di altri talk-show. In canotta «popolana», su una spiaggia della Sardegna, mentre con un bastoncino disegna strani piani, stranissimi geroglifici sulla sabbia. E poi nel parco di Arcore, con Berlusconi che lo chiama «Umbertone» e gli mette la mano sulla spalla. E scherzano, i due, su un certo pigiama. Esagerato, grossolano, efficacissimo: le virtù politiche di questo tempo. Dice: non gli ha retto il cuore. Ma mica faceva una vita normale, Bossi. Chilometri e chilometri in giro per la Lombardia, da anni. Curve su curve, incroci, cunette, rettilinei e colpi di sonno; auto scalcagnate, autisti ciarlieri e un po’ maneschi, comizi nei bar di paesi spersi per le Prealpi, vetri appannati, misere cene, pizza, cedrata e telefoni cellulari. I bollettini medici, adesso. Il va e vieni degli amici. Ma anche questa immagine sfuma nei ricordi più strambi. Anni orsono al concorso di Miss Padania la reginetta designata, Miss Camicia Verde, gli offrì il seno per l’autografo. Dopo la firma lui se ne stava lì in piedi, a braccia incrociate, con l’aria un po’ sorniona di chi sa che tutto, ormai, fa brodo, ma altre sono le cose che contano, la sua missione storica, l’energia che muove dal basso, dal popolo... Di recente quelle serate di Miss Padania sono andate in onda anche su RaiDue, con tanto di coro del Nabucco, e ancora una volta lui si è portato la mano sul petto. Bossi è Bossi, anche malato. Sarà interessante, oggi, dare un’occhiata alla ”Padania”. Quando compie gli anni il quotidiano della Lega gli riserva due tre pagine di auguri. I cuori semplici gli dedicano poesie, ispiratissime dediche, «Tu, che come aquila voli...». Una signora, che poi era la giornalista che curava quelle pagine della posta, confessò di non aver saputo resistere a un comizio, e di essere scoppiata a piangere. Un’altra militante gli attribuì poteri meteorologici: quando c’era lui veniva il sole. Un altro lettore, ancora, paragonò Bossi a Gesù Cristo. Ne seguì qualche polemica, doverosamente. Ma lui non ha mai scoraggiato questo tipo di afflati. Dal mondo dei suoi fedeli, d’altra parte, sembra che arrivassero gli auguri anche quando non era il suo compleanno. Nessun altro ha offerto così tanto da scrivere ai giornalisti. Nessun altro si è tirato appresso un’umanità così composita e pittoresca, la prima moglie cui fece credere di essere dottore (con festeggiamenti); la sorella e il cognato, con i quali ebbe terribili liti; il vecchio portavoce, Rossi, un ex giornalista dc che gli scriveva i discorsi e con cui pure, alla fine, ebbe a rompere; e tanti altri amici divenuti nemici, a volte di colpo. Mentre i nemici, come Berlusconi, divenivano alleati e magari saldavano anche i debiti alla Lega. E verrebbe da dire che è un mondo assurdo, quello di Bossi, quando invece è solo politica. La sua. La compiuta folklorizzazione della Seconda Repubblica gli deve moltissimo. Il Senatùr ha cominciato con «La Lega ce l’ha duro» e ha finito per dare vita a una cosmogonia. Da solo, anzi litigando con tutti, ha lanciato una divinità, il dio Po. Un simbolo, la ruota solare. Degli antenati, i celti. Un colore, il verde. Un sogno, l’indipendenza della Padania, espressione geografica e politica di assoluta indeterminatezza. E poi se n’è andato al governo. E ora in ospedale. Anche da ministro Bossi ha seguitato a dire e a fare cose temerarie, incredibili. L’ultima pochi giorni fa al Festival di Sanremo: chi non l’ha visto, l’altra sera, abbracciato a Mino Reitano, quello cantava «Itaaalia» e lui gli dava sulla voce con «Padaaania»? Sembrava un sogno di natura incubatica. Mentre forse era solo l’ennesima prova di padronanza mediatica, una dimostrazione di quell’abilità spettacolare che gli ha permesso di infrangere i codici simbolici, le ingessature ideologiche, lo stile politico quale era stato fino al momento in cui il personaggio di Bossi è divenuto un elemento del paesaggio italiano. E tutto senza che mai, sia ben chiaro, gli si potesse dare dell’ingenuo. Minacce sì, risate pure, volgarità quante se ne vogliono. Ma dopo aver ingannato Andreotti per il Quirinale nel 1992 - una vecchia storia di voti promessi e poi negati - Bossi ha anche immaginato, pianificato e realizzato disegni politici da togliere il fiato a tutti: il primo governo Berlusconi, per dire, affondato in nemmeno 24 ore. Ed è da allora che Scalfaro l’ha capito, che D’Alema gli fa i complimenti, che Fini non si fida, che Prodi gira al largo, e tutti i più grandi leader trattano con lui come si può trattare sotto una spada di Damocle. O sotto lo spadone dell’Alberto da Giussano, il guerriero medievale che Bossi pose a simbolo della Lega, e pare che si fosse ispirato al marchio delle biciclette Legnano. E tutto sempre accade con la partecipazione straordinaria di Umberto Bossi, anche quando non c’è. Quante volte l’hanno dato per morto. Quante volte se l’è cavata. Per certi versi la vita pubblica di un paese finisce per affezionarsi ai suoi protagonisti più bizzarri. E fra questi, indubbiamente, il Senatùr si conferma il più sperimentato. Una risorsa narrativa che a partire dalla metà degli Anni Ottanta non solo ha conquistato la scena e se l’è tenuta, ma soprattutto l’ha trasformata e anzi l’ha stravolta, fino a renderla irriconoscibile. Chi l’avrebbe detto vent’anni orsono. Ma forse il vero mistero, la ragione di questa sorpresa che tanto ha contribuito a renderlo pericoloso, è il Bossi sconosciuto, il Bossi di prima. Politicamente, un figlio di nessuno. Un autodidatta. Un capopopolo, come ne nascono certe volte in Italia di furbi e spietati. Un populista da XXI secolo. Nato e cresciuto tra la pianura brianzola e le colline del Varesotto, una specie di Far West negli anni degli sconvolgimenti sociali, della campagna che si fa industria. L’infanzia e l’adolescenza a sgranocchiare pannocchie, «el formentòn». L’ha raccontato bene Daniele Vimercati, in un libro molto bello, Vento del Nord!, l’unico in cui Bossi abbia accettato di raccontarsi a fondo. La nostalgia della campagna, un mondo perduto per sempre, Cassano Magnago come la via Gluck, i capannoni al posto delle coltivazioni. lì, forse, la frattura da cui nasce la Lega. Lui piccolo teppista, gli scherzi, le cattiverie: una volta con la sua banda «pisciammo dentro il serbatoio» di un motorino, e poi gli danno fuoco. Correva forte. A 14 anni, dalle parti di Gallarate, incontra il velocista Ottolina e lo sfida: «Ero emozionato, scattai come una molla. Fino a 60 metri gli tenni testa, poi mi lasciò indietro. Mi diede cinque metri, non di più». Chissà se è vero. E le balere, la musica, le ragazze, le donne. Tante. Piace, Bossi, per quella sua franca brutalità maschile. Le signore dei salotti di Roma e di Milano impazziscono solo a sapere che c’è, «anche se poi lui è capace di ammazzarle con un rutto» chiosava il gallerista amico Philippe Daverio. Un’immagine forte, e però in fondo adatta a chi ha portato molto in là la soglia della decenza politica. Il prezzo che si paga a dare corpo e veste alle inquietudini, alle pulsioni profonde di un pezzo di società. Un lavoro faticoso, una esperienza allo spasimo. Un partito costruito su misura come una comunità di credenti, e come tale in tutto dipendente dal leader, senza alcuna parvenza di democrazia interna. Nessuno più autoritario di Bossi, leader carismatico, interprete e profeta, salvatore in quanto servitore del popolo. Creatore di moderni antagonismi, dai meridionali agli islamici, passando per le oligarchie finanziarie e gli intellettuali. Un capo assoluto. Troppo assoluto - paradossi della politica - per potersi ammalare. Filippo Ceccarelli