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 2005  novembre 14 Lunedì calendario

Ci sono persone che si occupano di gusti, colori, forme, materiali con il preciso scopo di rendere le cose più utili o più belle

Ci sono persone che si occupano di gusti, colori, forme, materiali con il preciso scopo di rendere le cose più utili o più belle. Che si tratti di architetti, stilisti, scenografi, designer o artigiani, c’è un sapere al confine con l’arte che viene messo a disposizione della comunità o dei privati disposti a spendere pur di averne l’esclusiva. Ma non si tratta sempre di professioni sotto i riflettori dei media e riconosciute dal grande pubblico. Perché spesso il frutto di quei lavori è qualcosa di talmente naturale da diventare quasi invisibile. Abbiamo incontrato Giuseppe Mestrangelo, che di questa categoria è un esempio perfetto. Mestrangelo è un lighting designer, cioè un professionista dell’illuminazione applicata, anzi un artista che usa la luce come un elemento da plasmare per valorizzare al meglio quadri, mostre e oggetti d’arte, ma anche case, alberghi ed elementi architettonici. Il tutto con discrezione, perché la luce è un mezzo, non un fine: «La luce è fisiognomica, quindi, nel caso di un cliente, cerchiamo di capire qual è la sua, perché tutti ne abbiamo una nostra, dentro, che ci identifica e ci appartiene come la memoria, come un gesto o come la nostra stessa ombra» dice Mestrangelo, che va al nocciolo del problema: «Contrariamente ai tecnici, che devono occuparsi di numeri e leggi da rispettare, il mio team lavora soprattutto sulla percezione che una persona ha della luce. La cosa migliore è avere più soluzioni luminose in un appartamento, perché ogni sera ognuno di noi è diverso. Per esempio, qual è la luce ideale per rilassarsi, leggere o mangiare a casa propria? Sono luci differenti. Attraverso la tecnica, io posso gestirle, creando singoli equilibri all’interno di un equilibrio di base che deve assomigliare il più possibile alla luce naturale, che viene riconosciuta come gradevole dal nostro inconscio. La notte non è il giorno, mentre noi tendiamo a iperilluminare le strade, anche al di là delle ovvie ragioni di sicurezza. Non possiamo continuare a vedere materia illuminata a qualunque ora. L’equilibrio tra il giorno e la notte non esiste casualmente. Il nostro lavoro è non forzare questo limite naturale e rieducare i nostri clienti alla sensazione luminosa. Oggi invece, anche in casa, tutti vogliono i sistemi computerizzati. Siamo al prêt à porter dell’illuminazione». Ma quali sono i campi d’azione di un lighting designer? «Noi siamo specializzati in illuminazione di opere d’arte. Ma una pergamena, una ceramica o un Caravaggio vanno illuminati in modi completamente diversi. Utilizziamo due sistemi: la luce sagomata, cioè un fascio di luce che illumina un dato oggetto (ad esempio, una statua) seguendone i contorni grazie a un diaframma lavorato a mano e posto davanti alla lampada; oppure usiamo la luce riflessa: un faretto viene puntato su un disco di una lega particolare, che riflette la luce sull’oggetto da illuminare. Questo ha due vantaggi: elimina l’inconveniente del calore dovuto a un’illuminazione diretta, e depura la luce dai suoi spettri nocivi. Questo sistema» prosegue Mestrangelo «ha svariate applicazioni: è l’ideale per illuminare quadri con tele molto antiche o delicate che soffrono una luce troppo forte e diretta; permette d’illuminare i vestiti di una boutique senza comprometterne tessuti e colori con i raggi ultravioletti; consente a un albergo di poter evidenziare un vaso di fiori senza doverli sostituire ogni giorno perché seccati dalla luce; ma si presta anche a illuminare alla perfezione una poltrona da lettura eliminando il calore della lampada (fastidioso specie d’estate) o a ricreare in un salotto una luce lunare o crepuscolare perfetta per rilassarsi, anche se poi fuori piove. Il sistema è stato poi applicato a una specie di lampadario che ha una lampada puntata verso tanti specchi diversamente orientati per illuminare altrettanti oggetti presenti in una stanza. Questo, per me, è il futuro». Un lavoro del genere, che accomuna musei, case private, alberghi e negozi, ha naturalmente le sue regole: «Prima scegliamo il tipo di luce per un certo ambiente, poi si pensa alla ”macchina” con cui ottenerla» dice Mestrangelo, «perché è importante ricordarsi che la base è la luce, la macchina che la irradia è solo un mezzo. Non ci interessa che la lampada o il faretto siano prodotti di design, perché la luce non deve trasformarsi troppo in oggetto. Anzi, possibilmente la macchina la nascondiamo o costruiamo dei corpi illuminanti o riflettenti funzionali alle nostre esigenze: dischi, onde multiriflessione, frammenti di una lega di alluminio trattata al laser appesi al soffitto, con forme e misure studiate al computer, di colore oro, agento e/o rame a seconda del ”calore” che vogliamo dare alla luce. Naturalmente, contano anche i colori dei mobili, delle pareti o dei pavimenti, e se la casa è in allestimento, bisogna accordarsi con l’architetto su come ottenere l’effetto desiderato. Ma comunque mi piace l’idea di lasciare la luce senza forma, perché è proprio lì la nostra sfida: il nostro è il laboratorio dello sfruttamento del flusso luminoso». Vuol dire che il design di certi suoi prodotti è casuale? « così. L’oggetto deve essere funzionale, e solo casualmente bello. La forma segue la funzione, non il contrario. Con l’onda multiriflessione, ad esempio, stiamo sfruttando un evento fisico: ha una forma che, per ottenere quel tipo di illuminazione, non potrebbe essere diversa. Poi piace, ma è un caso. Anche in natura è così: un albero può essere bellissimo, ma la sua estetica risponde in realtà a principi di sopravvivenza. Una volta il design si rifaceva a qualcosa che già esisteva in natura. Ora questa concezione si è persa. Per quanto ci riguarda, noi cerchiamo in natura quello che ci serve per fare funzionare la luce. Materiali, forme, idee. Non mi chiedo quanta curva metterò in un oggetto perché diventi ”di design”, ma quanta me ne serve per fare funzionare la luce. Che poi un oggetto creato in base a criteri di funzionalità ispirati o dettati dalla natura sia spesso anche bello, forse non è un caso». Ma come si diventa lighting designer? «Non è un mestiere che s’impara sui libri» precisa Mestrangelo, «come non può esistere un corso di laurea per diventare artisti. un lavoro che va oltre l’illuminotecnica, oltre le norme e i parametri da applicare freddamente. Anch’io, se devo illuminare un ufficio, devo rispettare certe regole, che devo conoscere. Ma cerco di andare oltre, di usare tutte le mie esperienze, la conoscenza dell’ottica (l’apparecchio), quella manuale (l’arte di saper cesellare la luce), quella storica e artistica, perché non si illumina un Raffaello come un Leonardo: ognuno ha le sue tonalità specifiche, bisogna usare luci più o meno calde, una certa gradazione del colore, saper scegliere filtri e lampadine, conoscere il grado di fotosensibilità della tela (e qui serve la consulenza di un esperto). Alla fine lo scopo è sempre quello di effettuare una specie di restauro luminoso, dove un quadro diventa gradevole per l’osservatore, perché gli ho dato una luce armoniosa, giusta, naturale, senza che lui la percepisca come qualcosa di esterno». La luce perfetta, allora, è quella della natura? «Sì, perché la perfezione è intrinseca alla natura. La ”mia” luce piace perché non illumino, non sto facendo l’atto di accendere qualcosa, di sovrapporre. La luce perfetta è intrinseca a ogni spazio, va solo trovata».