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 2005  novembre 14 Lunedì calendario

ATROUS Sajida Mubarak. Nata a Ramadi (Iraq) nel 1970. Kamikaze. Il 9 novembre 2005 tentò di farsi saltare in aria all’hotel Radisson di Amman, in Giordania, ma non ci riuscì (a differenza del marito che l’aveva accompagnata nell’impresa)

ATROUS Sajida Mubarak. Nata a Ramadi (Iraq) nel 1970. Kamikaze. Il 9 novembre 2005 tentò di farsi saltare in aria all’hotel Radisson di Amman, in Giordania, ma non ci riuscì (a differenza del marito che l’aveva accompagnata nell’impresa). «Com’è il volto di un assassino? Come sono i suoi occhi? Com’è la sua voce? Quali i suoi pensieri? Domande assolutamente inutili ma che ci facciamo ogni volta che avviene un attentato con le bombe. Domande destinate a non aver risposta. E senza risposta si rimane anche stavolta che pure un attentatore è stato preso e mostrato in televisione, come un trofeo di caccia o di guerra, che poi è lo stesso. Perché ti chiedi che cosa ci vedi in quel viso di donna che racconta in tono monotono il suo personale fallimento come ”martire”. ”Siamo entrati nell’albergo, mio marito si è messo in un angolo, io in un altro. C’era un matrimonio, vi erano donne e bambini. Lui ha compiuto l’attacco io ho cercato di far esplodere la mia cintura ma non ci sono riuscita”. Volto paffuto, occhi neri e lucidi fissi sulla destra su un orizzonte invisibile, alta, in carne: Sajida Mubarak Atrous, o Sajida al- Rishawi [...] vive ad al Ramadi, nel Triangolo sunnita, a occidente di Baghdad. Sarebbe lei la ”venerabile Om Omaira” citata nel documento di rivendicazione diffuso per tv da al Qaeda ramo iracheno, quello che sarebbe diretto da Fadel Nazal al-Khalayleh, più noto come Abu Mussab al Zarqawi, il ”tagliagole”. I tre attentati hanno provocato 57 morti e 95 feriti. Lei la moglie del ”comandante” Abu Omaira. L’hotel Radisson Sas era il loro personale obiettivo e li aveva lasciati indifferenti che i partecipanti alla festa fossero in maggioranza palestinesi: la consegna era ammazzare quanta più gente possibile, un bagno di sangue. Lei sarebbe la sorella di uno dei tanti ”bracci destri” del ”tagliagole”, rimasto ucciso in uno scontro con gli americani a Falluja, un mese fa: per questo avrebbe deciso di diventare una terrorista. Insieme con il marito. Ora è lì, di fronte alla telecamera che cerca di frugarle il volto e ghermirle i sentimenti. Veste un lungo cappotto nero, con grandi bottoni, il capo è coperto dal velo di seta color avorio. Le fanno togliere il manto e sotto, stretti alla vita, i micidiali cuscini che formano la cintura esplosiva. Ma ha fatto cilecca. Da un sacchetto di plastica trasparente prende l’innesco, mostra quello che avrebbe dovuto fare, quello che il compagno le aveva insegnato alla vigilia. Com’è andata? La donna prosegue il racconto con voce piana, in apparenza non sembra provare alcuna emozione, né per i morti né per il suo uomo e neppure per se stessa. ”Il 5 novembre ho accompagnato mio marito in Giordania usando passaporti falsi iracheni, con i nomi di Ali Hussein Ali e Sajida Abdel Qader Latif. Abbiamo aspettato ed è arrivata un’auto bianca con due persone a bordo. Ci siamo diretti con loro in Giordania. Mio marito ha organizzato il nostro viaggio dall’Iraq, non so altro”. E questa è la prima versione, alla quale quelli dei servizi di sicurezza di Amman paiono credere solo in parte perché tutto sembrerebbe troppo facile.Come trovare una casa per trasformarla in base. ”In Giordania abbiamo affittato un appartamento. Lui aveva due cinture esplosive, ne ha indossata una e l’altra l’ha data a me: mi ha spiegato come usarla. Lui ha detto che servivano per attaccare gli hotel. Il 9 abbiamo affittato un’auto e siamo andati al Radisson Sas”. Avevano studiato l’obiettivo nei dettagli perché sono filati nella grande sala e hanno preso posizione ai due lati, così da creare un inferno doppio. Non sapremo mai se quando il marito è saltato in aria lei abbia soltanto commesso uno sbaglio oppure se ci ha ripensato. Non lo sapremo perché dal tono della voce non è possibile capire qualcosa e neppure gli occhi tradiscono i sentimenti. ”Sono scappata. La gente correva e anche io ho iniziato a correre”. E questo è tutto. [...]» (Vincenzo Tessandori, ”La Stampa” 14/11/2005). «Non è riuscita a tirare l’innesco della sua cintura esplosiva Sajida. Voleva, ma forse ha esitato. E quando l’esplosione ha devastato l’Hotel Radisson e fatto salire nel ”paradiso dei martiri” suo marito, è fuggita. Fianco a fianco, agli scampati al massacro. La prima ”candidata suicida” di Al Qaeda non è riuscita a diventare shahid. Sfuggendo così al destino delle donne trasformate in vestali del martirio dai maschi di famiglia che hanno scelto il jihad. Una volta catturata è stata subito portata davanti alle telecamere per confessare. Inevitabile in un conflitto che, a dispetto degli scenari in cui si svolge, è drammaticamente ipermoderno. Sia nelle tecniche di combattimento sia in quelle mediatiche: totali sotto ogni punto di vista. Davanti al freddo occhio della telecamera Sajida è apparsa svuotata e rassegnata più che orgogliosa. E soprattutto sola. La morte che voleva infliggere, e che il marito ha sparso a piene mani durante un matrimonio diventato un funerale, l’ha risparmiata. Ma [...] non cesserà di chiedersi il perché sia sfuggita a una morte tanto agognata. Perché socialmente morte queste donne lo sono già. Sin dal momento in cui sono costrette a indossare la cintura esplosiva. Nata a Ramadi, città di quel Triangolo sunnita dove guerriglia baathista, qaedisti e americani si affrontano con ogni mezzo, Sajida era diventata sacrificabile, come le vedove nere cecene o le donne egiziane o palestinesi, perché toccata dal doppio crisma: l’essere destinata a restare presto sola perché il marito era ormai entrato nelle fila degli ”eletti” da sacrificare nelle ”operazioni di martirio”; perché doveva vendicare la morte del fratello, uno dei luogotenenti di Zarkawi, caduto a Falluja. La sua presenza nel commando era stata annunciata da Al Qaeda con l’enfasi che la novità esigeva. Il gruppo di Zarqawi era convinto che la ”venerabile Um Umaira”, questo il suo nome di battaglia, fosse perita insieme ai suoi complici. Diventando un fulgido esempio da imitare. Anche perché allargare il campo del reclutamento jhadista alla componente femminile, rende molto più difficile il contrasto al terrorismo. In società come quella islamiche perquisire una donna è sempre una faccenda delicata. Il martirio di Sajida voleva essere anche il segno tangibile che Zarqawi, contrariamente alla leadership storica di al Qaeda e di altri movimenti islamisti, considera il jihad un obbligo personale del credente. Un affare da praticare senza distinzione di genere. Interpretazione che spezza la stessa neotradizione jihadista che escludeva le donne dalle ”operazioni di martirio” in nome del ruolo loro assegnato nello spazio privato. Una decisione, quella di diventare shahid con l’hijab, ”martire con il velo” che spetta comunque, in ultima istanza, agli uomini. Ancora una volta le donne sono destinate a mietere, e a essere, solo ”vittime sacrificali”. A cercare una morte possibile perché appare loro impossibile, o viene fatto loro credere impossibile, vivere dopo il ”sacrificio” del ”martire” maschio di famiglia. Marito, promesso sposo, fratello o figlio che sia. Solo in apparenza, dunque, queste nuove reiette giungono all’eguaglianza di genere sul terreno della morte sulla ”via di Dio”. Il ”jihad familiare” non è la via all´emancipazione. La malintesa uguaglianza nella morte rende visibile ciò che per definizione non è visibile nella vita: l’agire femminile in uno spazio non tradizionale come quello della guerra. Le donne sono mandate a morire perché ormai inutili. La loro irruzione nella scena pubblica corrisponde alla marginalità sociale che deriva dall’essere senza famiglia: ovvero senza maschio. Sul corpo smembrato dalle bombe che fanno esplodere e dovrebbero renderle martiri si ricompone così l’unità del corpo sociale maschile. Fuggendo dall’Hotel Radisson forse Sajida l’avrà capito. Aver partecipato alla spedizione di quello che Al Qaeda ha definito il ”gruppo di leoni delle brigate al-Bara Bin Malik” non l’ha riscattata dalla sua infelicità senza desideri» (Renzo Guolo, ”la Repubblica” 14/11/2005). «Il velo delle donne islamiche calato sulla fronte. Il lungo soprabito nero stretto in vita da una sorta di busto bianco, alto due spanne. Ecco Shaida al Rishawi, che senza tradire emozione confessa davanti alle telecamere della Tv giordana di essere la quarta terrorista di Amman, la donna del drappello che ha fatto saltare gli alberghi, destinata anche lei ad immolarsi, assieme al marito Alì Hussein al Shimari. Ma la cintura esplosiva che quella sera portava non sopra, ma sotto il cappotto, laddove nessuno avrebbe osato perquisirla, non ha funzionato. La sequenza, non più lunga di tre minuti, sì apre con la scura silouette di Shaida ripresa da lontano. Un’immagine che richiama alla memoria quelle di altre donne votate al sacrificio proprio e alla morte altrui, le guerriere cecene avvolte nei mantelli neri che tendono a bada gli ostaggi del teatro di via Dubrovka, le dita candide pronte a far esplodere le bombe. Anche la terrorista di Amman mostra alla Tv come ha cercato di azionare il detonatore, secondo le istruzioni ricevute dal marito. Le dita scorrono sopra il corpetto avvolto dalla plastica trasparente. Afferrano un piccolo cilindro bianco, l’interruttore collegato all’esplosivo, lo fanno scattare due o tre volte. Le mani non tremano, come fosse un gesto istintivo, normale. ”Mi chiamo Shaida Mabruk Atrus Rishawi - dice, quando l’obiettivo ne inquadra finalmente il viso - sono nata nel 1970 a Ramadi, Iraq”. Ramadi, una delle città del cosiddetto triangolo sannita, da cui è partita la controffensiva contro le truppe americane in Iraq. Santuario, al tempo stesso, della fi liale irachena di al Qaeda guidata dal giordano Abu Mussab al Zarqawi. A questa brigata votata al terrorismo del più sanguinario specie contro la popolazione sciita irachena ma [...] Shaida (che in arabo vuol dire martire, al femminile) appartiene per diritto di famiglia. La mancata kamikaze di Amman, secondo le autorità giordane, sarebbe, infatti, sorella di Samir Mubarak Atrus al Rishawi, ucciso durante il bombardamento di Falujia (la capitale dl triangolo sunnita) ed [...] indicato come ”il braccio destro” di Zarqawi. ”Sono entrata in Giordania il 5 novembre assieme a mio marito [...] La sera del giorno nove - continua Shaida, nella sua confessione televisiva - io e mio marito abbiamo preso un taxi e siamo andati al Radisson. Nell’albergo c’era una festa di nozze. C’erano molti uomini, donne, bambini. Appena entrati, ci siamo separati, mettendoci in due angoli diversi. Lui ha portato a termine l’operazione (s’è fatto, cioè, saltare), io ci ho provato ma la cintura non è esplosa e quando la gente è cominciata a scappare e sono scappata anch’io”. La ricostruzione di Muasher aggiunge un particolare. lei, secondo il racconto del vice premier che tenta di farsi esplodere per prima, senza riuscirci. Allora il marito, forse per un riflesso tardivo d’affetto, la spinge via dalla sala e poi si fa esplodere. Il filmato trasmesso dalla Tv giordana finisce qui. In tre minuti, il viso inizialmente tirato della donna, s’è rilassato, pur facendola sembrare più vecchia dei suoi 35 anni. Dalla sua confessione si può risalire anche ai nomi degli altri due attentatori: Safar Mohamed Ali e Rawas Jasim Mohammed Abid. Tutti della stessa zona. Ecco confermati, dunque, i sospetti che ha compiere la strage degli alberghi di Amman (57 morti e oltre 90 feriti) è stato un commando di kamikaze iracheni agli ordini del giordano Zarqawi. La stessa centrale terroristica, Al Qaida in Iraq, d’altronde, non ne aveva fatto mistero, prima con la rivendicazione e poi con l’inquietante comunicato in cui aveva svelato la presenza di una coppia sposata tra gli attentatori suicidi. I nomi erano fasulli Abu Omaira e Um Omaira, il fatto era vero. Anche se, in realtà, la donna era sfuggita alla morte per essere subito dopo arrestata con indosso il corpetto esplosivo. Resta da vedere perché Zarqawi abbia deciso di mandare a morire Shaida e suo marito Alì Hussein. La fiorente casistica dei terroristi suicidi, in Cecenia, in Israele o in Iraq, insegna che, dietro la retorica del martirio, ci sono quasi sempre motivi ben più terreni ad ispirare la scelta di un kamikaze. Motivi che in questo caso si possono soltanto presumere» (Alberto Stabile, ”la Repubblica” 14/11/2005).