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 2005  novembre 14 Lunedì calendario

L’improvvisa sterilità di Rossini

Il mistero di Rossini. Il mistero di Gioachino Rossini è questo: dopo aver composto musica sensazionale per una ventina d’anni, al ritmo di tre opere l’anno e a una velocità mai vista né prima né dopo (il Barbiere in nove giorni e secondo alcuni in sei), Rossini all’età di 37 anni, apparentemente nel pieno delle forze, smise quasi del tutto di scrivere, sostenendo che mentre fino a quel momento le melodie venivano a cercarlo spontaneamente, adesso era lui che doveva andare a cercar loro. Che cosa si nasconde dietro questo improvviso inaridimento della vena? Mal di nervi. Che fosse questione di ”mal di nervi”- come si diceva un tempo - era già abbastanza chiaro. Un libro di Gaia Servadio, Rossini (edito da Flaccovio), parla adesso senz’altro di depressione, parola moderna che un tempo non si conosceva. La Servadio ha esaminato per la prima volta carte mediche e 250 lettere inedite al padre, alla madre e alla prima moglie Isabella. Gli specialisti consultati dalla Servadio e quelli che abbiamo consultato noi (in particolare la dottoressa Luciana Burchi Boneschi) hanno confermato: mettendo insieme quello che risulta da questi documenti con quello che si sa dalla storia, il male oscuro di Rossini sembra proprio quello che noi oggi definiamo, clinicamente, ”depressione”, accompagnata da momenti di euforia, ansia, crisi di panico, fobie e manie di persecuzione. La vita del grande musicista riletta come quella di un ”grande depresso” appare illuminata a un tratto di una luce nuova, molto nota alle persone che, sporadicamente o cronicamente, si sono trovate immerse in questo male. Malattie. Intanto, prima che un depresso, Rossini fu un grande malato. Prese da giovane la gonorrea, da cui non si guariva e che lo sfiniva. Questa gonorrea (una malattia venerea) a un certo punto gli provocò una violenta infiammazione all’uretra, calcoli alla vescica, emorroidi. Gli venne anche una psoriasi allo scroto e certo furono queste malattie ad alimentare la voce - non vera - che la crisi dei 37 anni fosse stata determinata dall’impotenza. Soffriva poi di ipertensione, bronchite e diarrea croniche, insufficienza cardiaca. Aveva problemi di circolazione che gli facevano dolere le gambe. Morì nel 1868 (a 74 anni), per un cancro al retto. La madre si prostituiva? Eppure le sofferenze maggiori furono di carattere psicologico. Come sempre, per ricostruirne la natura, bisogna partire dall’infanzia. Rossini era nato a Pesaro il 29 febbraio del 1792. La famiglia era molto povera. Il padre, di nome Giuseppe, faceva il trombettiere municipale, era un uomo ingenuo e chiacchierone che i compaesani avevano soprannominato ”Vivazza”. Lui stesso descrive la madre, Anna, come «slanciata e ben proporzionata, con una carnagione fresca e piuttosto pallida, dentatura perfetta, magnifici capelli neri ricciuti, sempre allegra e di buon umore, con un eterno sorriso sulle labbra e sul viso un’espressione di angelica dolcezza». Cantava bene, anche senza aver studiato musica, ma poiché lo Stato Pontificio proibiva alle donne di esibirsi, si guadagnava da vivere come cucitrice. Tra i due genitori c’era una bella differenza d’età: lui aveva 32 anni, lei 19. Quando lei restò incinta di Gioacchino (primo di quattro figli) non erano ancora sposati e Anna salì l’altare di cinque mesi. Era una donna di costumi facili? Probabilmente sì: una sua sorella, Annunziata, si prostituiva e il sospetto che anche Anna abbia arrotondato talvolta con questo sistema è forte. Ne venne che Gioacchino, che pure ebbe per la madre una venerazione, fu sempre tormentato dal sospetto di non essere figlio di Giuseppe. Queste cose, a quell’epoca, si vivevano con un forte senso di colpa. Miseria. Rossini bambino soffrì moltissimo per le condizioni di miseria in cui viveva la famiglia. I genitori abitavano in via Duomo e poco dopo la sua nascita si videro costretti ad affittare una camera a due tirolesi. I soldi non bastavano ancora, si misero allora a viaggiare per i paesi delle Marche e dell’Emilia vendendo musica. Il bambino restava a casa con la nonna, soffrendo di nostalgia per l’assenza dei genitori e sviluppando il terrore di essere abbandonato o di non essere amato abbastanza. A sei anni (1798) si mise a lavorare pure lui: faceva il listaro della banda musicale, cioè suonava il triangolo. A dieci anni prese a cantare (aveva una voce prodigiosa) e a dodici componeva sonate per violino, violoncello e contrabbasso. Intanto Napoleone era sceso in Italia (era a Pesaro nel febbraio del 1797) e il padre s’era infiammato di idee bonapartiste e repubblicane. Appena cambiò il regime, fu arrestato e passò il resto della sua vita a entrare e uscire di prigione. Questo significava che tutta la famiglia dipendeva economicamente da Gioacchino, una pressione enorme per il suo già scarso senso di sicurezza. Dalle disavventure del padre, Rossini derivò un’altra certezza: mai e poi mai avrebbe dovuto, nel suo lavoro di musicista, far capire come la pensava. In un’epoca di grandi rivolgimenti come quella, questo atteggiamento gli costò l’accusa di essere un reazionario contrario al movimento risorgimentale. Non era poi un’accusa del tutto destituita di fondamento: Gioacchino guardò sempre con sospetto e terrore l’avanzare dell’età moderna. Grande musicista. I segni dei male sono frequenti negli anni Venti, ma qualcosa traspare anche prima. Come si sa, la prima del Barbiere (16 febbraio 1816) fu un fiasco: i fan di Paisiello, che era il divo musicale del momento e aveva già composto un Barbiere, vennero a boicottare il debutto all’Argentina di Roma: oltre ai fischi alla cantante, al gatto che camminava sul palco, ai miagolii che partivano dalla platea, vi fu uno sfottò personale indirizzato a lui, che stava al clavicembalo, per via della sua giacca color zafferano. Rossini era in quel momento un ragazzo di 24 anni, assillato dai problemi che abbiamo visto. La sera dopo, quando un pubblico non prevenuto decretò il trionfo dell’opera e andò in corteo fino all’albergo del musicista per celebrarne la grandezza, Rossini si barricò in camera tremante, in preda a una crisi di ansia e, nonostante le acclamazioni, rifiutò di affacciarsi. Incidenti successivi. A Pesaro non era più voluto tornare per paura della principessa di Galles che, offesa per un affronto, alla prima della Gazza ladra (1817) gli aveva mandato dei suoi scagnozzi a fischiarlo. Nel 1822, Metternich lo invitò al Congresso di Verona per dirigere l’orchestra. Ma il palco del direttore stava sotto la statua della Concordia e Rossini (che aveva in quel momento 30 anni) si mise in testa che quella statua gli sarebbe caduta addosso. Diresse quindi il concerto tutto tremante e in preda ai sudori. In quello stesso anno andò a Parigi, dove gli era stata affidata la direzione del Théâtre des Italiens. Ma i lavori per l’apertura procedevano a rilento ed ebbe una crisi: tre settimane a letto in preda alle febbri e senza potersi alzare. L’anno successivo, 1823, salì per la prima volta su una nave a vapore per attraversare la Manica e andare in Inghilterra. All’arrivo si mise a letto e ci rimase per una settimana, rifiutandosi persino di incontrare il re Giorgio IV. Spiegò che la velocità, il rumore, la sensazione di perdere il controllo - tutti sentimenti patiti sulla nave - lo avevano terrorizzato. A Londra infatti non sarebbe tornato mai più. Nel ’27, altra crisi violentissima: il 20 febbraio era morta la madre e Rossini non si dava pace per non esser corso da lei. A quel tempo era ancora sposato con Isabella Colbran, un grande contralto, più vecchia di lui di sette anni. Matrimonio reso tempestoso dal fatto che lui le aveva passato la gonorrea e che lei lo accusava di non scrivere più musica per la sua voce. Gioacchino si era innamorato in quel momento di Olympe Pellissier, mantenuta d’alto bordo, e proprio per questo non era tornato in Italia a visitare la madre. Sensi di colpa a non finire. Inoltre, dopo l’incontro con Beethoven a Vienna (1822), aveva cominciato a pensare che nulla di ciò che poteva fare o aveva già fatto fosse sensato. Commosso dalla miseria in cui il musicista viveva, capì che Beethoven era ben lontano dal compiacere il gusto altrui e pensò di se stesso che avendo scritto con enorme successo era stato sempre al servizio di qualcun altro. Crisi definitiva. Infine, con il Guglielmo Tell, la crisi definitiva. Rossini, ora trentasettenne, ci mette più di un anno per comporre l’opera: studiata apposta per i francesi, doveva essere nuova, romantica e maestosa. Quando poi va in scena (3 agosto 1829) il pubblico parigino la accoglie freddamente. la fine. Rossini ne resta profondamente deluso ma, come d’abitudine, finge indifferenza e torna in Italia prendendo accordi per l’impegno successivo (una versione musicale del Faust di Goethe). L’anno dopo, però, il suo contratto con l’Opéra viene sciolto per via dei disordini scoppiati nel mese di luglio. Rossini, stanco e malandato, s’abbandona al suo male di vivere. Ormai ricco, non ha più bisogno di accettare commissioni e ha dimostrato di poter scrivere un’opera che corrisponde al nuovo gusto dei tempi. Medita la separazione da una moglie (Isabella) delusa che passa il tempo a bere e giocare d’azzardo e si stabilisce a Parigi per stare accanto a Olympe. Di scrivere non se ne parla. Resta chiuso in casa e vede pochi amici (specie Balzac, con cui parla di musica, donne e crisi nervose). Tenta pure di vincere il torpore viaggiando. Ma non serve a nulla. Quando, alla morte della Colbran (1845), Gioacchino e Olympe si sposano, quelli che li vanno a trovare incontrano un uomo e una donna grassi, tristi, che hanno tra di loro lo stesso rapporto che c’è tra un’infermiera e il suo paziente, un rapporto tutto casto, dove lei passa il suo tempo a confortarlo e dargli le medicine e lui vuole sempre che la luce sia spenta per poter singhiozzare senza essere visto. Gli anni fiorentini (dal ’50 al ’54) sono i peggiori: sobbalza a ogni rumore, non dorme, non mangia, piange al solo sentir parlare di musica. Al tenore Donzelli, che gli chiede un pezzo nuovo da far cantare alla figlia, risponde di trovarsi in uno stato di «impotenza mentale». Suona di rado (e sempre al buio), indossa strane parrucche da giovanotto, ricce e nere, mangia in continuazione, non riesce a vestirsi da sé, si maledice per non essere capace di togliersi la vita: «Ho tutti i mali delle donne, non mi manca che l’utero». Gli fu diagnosticata una nevrastenia estrema, qualcosa di simile a un esaurimento nervoso. Secondo lo psichiatra inglese Simon Wessley questa espressione poteva essere sinonimo di depressione e d’ansia, e suscitava l’interesse dei medici solo perché il paziente era ricco e famoso. All’epoca si dedicava poca attenzione alle malattie nervose, che secondo l’etica cristiana appartenevano al regno di Dio. Rossini, che non era credente, aveva rifiutato le cure tradizionali italiane: i vari santuari della Madonna di Loreto, di Lourdes, di Pompei, le offerte ai santi protettori. Ebbe paura di prender l’oppio che i medici prescrivevano per farlo dormire, ma provò tutto il resto: impiastri vari, bagni termali e persino il mesmerismo (confidando nei benefici del ”magnetismo animale”). Quando ormai non seppe più cosa fare seguì il consiglio di un amico (’Buona tavola, buona compagnia e buona musica”) e nel 1855 tornò a Parigi. Il viaggio durò due mesi perché non volle prendere il treno. Ritrovò i vecchi amici e comprò una nuova casa che diventò il punto di riferimento della società intellettuale e musicale parigina. Scriveva o no? In realtà anche dopo il ritiro dalle scene Rossini non smise completamente di scrivere. A Max Weber (il figlio di Carl Maria, l’autore de Il franco cacciatore) disse di scrivere molto, ma, solo, di non voler pubblicare e meno che mai andare in scena. Si svolgevano infatti a casa sua delle serate a cui erano invitate poche persone molto scelte e molto famose (ci andarono Verdi, Liszt, Paganini, Meyerbeer, Gounod, il pittore Delacroix, Gustavo Doré, ecc.), gli unici a cui faceva ascoltare le sue cose. Le ragioni del suo ritiro le spiegava così: «La musica non può sottrarsi all’influenza dell’epoca in cui viviamo. E l’ideale e il sentimento odierno sono rivolti solo al vapore, alla rapina, alle barricate». Compiaciuto d’esser fuori moda, capiva che l’epoca romantica aveva sorpassato il suo stile. Compose per sé. E la sua creatività trovò un nuovo sfogo nell’invenzione di prelibate ricette. Riconosciuto come grande vecchio della musica e buongustaio, riceveva visite e organizzava convivi. Nel 1860 incontrò Wagner. Due epoche si confrontarono riconoscendo la reciproca grandezza. Rossini commentò: «Quel giovane rivela una volontà di ferro. Che gran cosa saper volere!». L’epitaffio per un uomo che, celebrato, seducente, arguto, passò invece la sua vita tra attacchi d’ansia e manie di persecuzione. Un emblema di come si possa essere tormentati avendo tutto per essere felici.