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 2005  novembre 14 Lunedì calendario

Un battito di ciglia, un dito che picchetta sul tavolo, un piede che balla. Chi gioca forte a poker sa che ogni piccolo gesto è più importante di un discorso

Un battito di ciglia, un dito che picchetta sul tavolo, un piede che balla. Chi gioca forte a poker sa che ogni piccolo gesto è più importante di un discorso. Perché dell’avversario rivela timori (se bluffa) o godimenti (se ha in mano il punto vincente). E chi osserva si regola di conseguenza. Perciò abbiamo chiesto a tre giocatori incalliti di svelarci i loro tic e quelli dei loro avversari. La gamba che balla da sola Il cantante Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, gioca da quando aveva 14 anni e con le carte ha rischiato di rovinarsi. Adesso sta per pubblicare il libro Diario di gioco, che racconta tutte le sue avventure da pokerista. «L’impassibilità l’acquisisci con l’esperienza. E io, dopo tante sconfitte subite, credo di saper controllare i miei gesti. Anche perché, a differenza di un tempo, gioco solo cifre che mi posso permettere. Quando rischiavo i soldi che non avevo, allora sì che mi venivano i sudori freddi. D’altra parte quello che conta è la posta, puoi giocarti il denaro o la vita, altrimenti non te ne importa niente. Solo la posta può tenerti sveglio a giocare tre giorni di fila, come è capitato a me tanti anni fa». Lei, ormai, non si tradisce proprio più? «Una cosa mi succede, ma è una sorta di premonizione del corpo: quando la serata sta per prendere una piega positiva, la gamba sinistra comincia a ballare da sola, incontrollabile. come se dicesse: ”Vai, è giunta l’ora di rischiare”». Ricorda un episodio in cui ha vinto grazie a un tic di un avversario? «Mio padre, grande giocatore di poker, gestiva il circolo Enal di Ponticino, ad Arezzo, un postaccio losco dove si giocava forte. E quando ero ragazzino mi svelava i punti deboli dei suoi avversari. Ad esempio, di un tale noto come il Toppa di Ponticino (lo chiamavano così perché quando poteva barava), mi disse: «Quando il Toppa, dopo il rilancio, si accende una sigaretta, stai certo che bluffa». A 16 anni mi capitò di giocare proprio col Toppa. Io puntai 5 mila lire. Lui rilanciò a 50, cifra per me enorme. Ma dopo il rilancio s’accese una sigaretta, e io mi ricordai le parole di mio padre. Ebbi il coraggio di andare a vedere, e vinsi. Il Toppa, anche quella volta, s’era fatto tradire da una sigaretta». L’aggiustatina alla cravatta Cesare Lanza, giornalista, ex giocatore incallito, ha un metodo infallibile per capire lo stato d’animo dell’avversario: «Colgo il suo sguardo quando lui non crede d’essere osservato. Lo distraggo con un diversivo (magari chiedendo qualcosa da bere), lui perde concentrazione e io vedo se il suo occhio ”vero” è cattivo, impaurito o appagato. E poi ci sono i tic. Appena sale l’ansia, un’aggiustatina alla cravatta è inevitabile. Quasi nessuno riesce a trattenersi. Poi c’è chi si gratta la testa, chi tamburella sul tavolo con le dita. A qualcuno balla un piede, a qualcun altro le gambe. Il problema è che la tensione sale per due motivi: l’avversario non vede l’ora di papparsi il piatto oppure è un coniglio che bluffa. Per regolarti, devi giocare con gente che conosci. Una volta stavo al tavolo verde con un tale, la puntata era alta e io avevo solo due assi, non mi sembrava il caso di tentare. Ma l’altro, nell’attesa di una mia decisione, non resistette alla tentazione di mettere meticolosamente in ordine le fiches. Poteva essere impazienza o paura, andai a intuito e giocai. Feci bene, bluffava. E io, con due assi, mi pappai un piatto invidiabile». Gioca volentieri con le donne? «Diffido delle donne. Non perché siano impassibili ma perché, curiose e cocciute, sono imprevedibili». Tre impassibili cinesi Giovanni Bruzzi, detto il professore, 68 anni, fiorentino, pittore diplomato all’Accademia, cinque anni trascorsi a Parigi (dove conobbe André Breton), un passato da baro e da gestore di bische «a cinque stelle», consultato da Pupi Avati per la partita a carte del film Regalo di Natale (1986), le facce e i gesti dei giocatori li conosce bene. Anche se lui non se ne è mai interessato troppo, visto che «il baro è il civettone del tavolo, gli altri sono allodole. Quando ti accorgi che sono senza difese, cambi il mazzo e li spenni». Quindi la mimica per lei non conta affatto? «No, anche perché ogni segnale può esser doppio: un sorriso può indicare sicurezza o mascherare paura. In realtà, tutti i professionisti del poker cercano di mostrare proprio lo stato d’animo opposto a quello che provano». Un consiglio a un giocatore che non imbroglia? «Per non mostrare tensione, deve muoversi lo stretto indispensabile. Prendere le carte, guardarle, puntare. Mai sistemare le carte (per non dare indicazione sul proprio gioco agli avversari), mai giocherellare con le fiches (cosa che rivela uno stato d’animo alterato). Ognuno ha i suoi rituali, e non deve cambiarli. Ad esempio c’è quello che guarda le carte e poi le poggia sempre sul tavolo. La volta che non le poggia, gli avversari si insospettiscono». Ma un baro non si emoziona mai, non ha mai un gesto di nervosismo? «No. calmo nell’aspetto e nell’animo, tanto sa che alla fine lascia tutti in mutande». Quali gesti usano due complici per dirsi che carte hanno? «Ogni coppia ha un suo codice. Ad esempio con le dita della mano sinistra comunico i semi, con la destra i valori delle carte, mi gratto l’unghia del pollice e l’altro capisce che ho un full». Ma i bari non perdono mai? «Un ”collega” mi raccontò che a Macao, negli anni Sessanta, fu sconfitto per tre volte da tre cinesi. Sembravano statue, eppure (lui lo capì dopo tre batoste) si comunicavano a gesti tutte le carte. Ma i segnali degli orientali, peraltro impercettibili, per un occidentale sono imperscrutabili. Il mio amico se la diede a gambe, lasciandomi in eredità un consiglio: ”Non sederti mai a un tavolo verde con tre cinesi. Con uno sì, ma se son tre sei fatto!”». Pentito del suo passato da baro? «A Firenze si dice: nel mondo ci sono i piglianculi, il 99 per cento della gente, e ci sono i tiranculi, l’1 per cento. Io appartengo a questi pochi, per vocazione».