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 2005  novembre 14 Lunedì calendario

«Altro che maschere, scherzi e coriandoli. Il Carnevale un tempo si festeggiava a suon di bastonate e c’era pure chi finiva sul rogo» spiega Claudio Bernardi, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università Cattolica di Brescia

«Altro che maschere, scherzi e coriandoli. Il Carnevale un tempo si festeggiava a suon di bastonate e c’era pure chi finiva sul rogo» spiega Claudio Bernardi, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università Cattolica di Brescia. «La festa più pazza dell’anno trae spunto infatti da alcune celebrazioni diffuse durante l’Impero romano: i Saturnali, in onore di Saturno, che spesso sfociavano in eccessi di ogni sorta, e i Baccanali, dedicati a Bacco, trascorsi tra ubriacature e feste orgiastiche e soppressi con senatoconsulto nel 186 a.C. per immoralità. Con l’avvento del Cristianesimo, poiché la Chiesa decise che i fedeli dovevano prepararsi alla Pasqua con quaranta giorni di penitenza e di digiuno (la Quaresima), si stabilì ben presto in Occidente un periodo di ricreazione, in cui si potevano ostentare pubblicamente tutti quei comportamenti interdetti in Quaresima e anche quelli censurati nel resto dell’anno dalle autorità ecclesiastiche». Era, appunto, il Carnevale, che peraltro già nel nome lasciava intendere gli imminenti sacrifici: Carnevale, infatti, deriva dal latino carnem levare, cioè ”abolire la carne”, che la Chiesa proibiva di mangiare durante la Quaresima. Un contrasto, quello tra Carnevale e Quaresima, che è stato ripreso da molti pittori e scrittori, che hanno descritto il primo come un uomo grasso e rubicondo e la seconda come una vecchia scarna e triste. Mesi di festa Il Carnevale non durava però qualche giorno, come succede oggi nella maggior parte delle città italiane: «Di solito iniziava subito dopo Natale, qualche volta il 17 gennaio (festa di Sant’Antonio Abate) o il 2 febbraio (giorno della Candelora) e andava avanti fino al mercoledì delle Ceneri, quando iniziava la Quaresima» continua Bernardi. «Settimane in cui ci si allontanava dall’inverno e si salutava l’arrivo della primavera. Per propiziarsi la buona stagione, non c’era arma migliore del riso, provocato in tutti i modi attraverso le oscenità, i lazzi, le beffe, i giochi di parole. Anche le maschere avevano, ieri come oggi, lo scopo di suscitare l’ilarità: gli uomini si travestivano da donne, i servi si camuffavano da padroni». Il trionfo dell’ordine La società (vedi box in alto nella pagina a fianco) perdeva la testa. Ma, e qui sta il bello, proprio in questo modo dimostrava le nefaste conseguenze di un mondo anarchico e temporaneamente egualitario e rinforzava l’ordine costituito. «Dopo giorni in cui i servi si erano mascherati da padroni, in cui le donne avevano preso a bastonate gli uomini, in cui per le strade ci si era ubriacati e azzuffati, la sensazione generale non era quella di benessere, ma di caos, di confusione» chiarisce Bernardi. «Era come se col Carnevale si fosse lasciata per un momento intravedere la possibilità di un mondo diverso, che si era però rivelato peggiore del precedente. Il Carnevale non aveva modificato quindi l’assetto politico, ma aveva finito per conservare al meglio lo stato delle cose. Non aveva favorito per niente la democrazia, ma aveva invece rinforzato la gerarchia antecedente la festa». Dopo il disordine, l’ordine non si conquistava in modo automatico: serviva un capro espiatorio da immolare come responsabile della confusione carnevalesca. Gli animali erano vittime sacrificali perfette: i cani venivano lanciati per aria, i galli bastonati a morte. Del resto ancora oggi, a Petchaburi, in Thailandia, è diffuso un gioco carnevalesco per cui i concorrenti devono riuscire a tenere abbracciato per un minuto un maiale di almeno 50 chili cosparso di olio. «Ma gli animali un tempo non bastavano» dice Bernardi. «Si prendeva un fantoccio e lo si eleggeva re del Carnevale, per poi processarlo e condannarlo a morte in una cerimonia collettiva. Ma anche i fantocci davano poca soddisfazione e il capro espiatorio era spesso umano: molti condannati a morte finivano sul rogo proprio il giorno di Carnevale, come Giordano Bruno, arso in Campo dei Fiori nel febbraio del 1600. Ci fu anche chi rischiò di finire per sbaglio tra le fiamme, come il re di Francia Carlo VI (1368-1422): mentre danzava intorno a un falò, il suo costume da orso prese fuoco, ma tutto si risolse solo con molto spavento e qualche ammaccatura. In diverse università italiane, poi, durante il Carnevale la gente aveva la possibilità di assistere alla dissezione dei cadaveri: a Pisa, i cadaveri erano quelli dei condannati a morte, concessi per l’occasione dal Granduca di Toscana». Il Carnevale richiedeva dunque anche un sacrificio rituale a cui collaborasse tutta la collettività mascherata: la violenza, inaccettabile in altri periodi dell’anno, andava infatti occultata attraverso la maschera. Niente di così lontano, se ancora oggi, dopo il Carnevale di Rio de Janeiro, in Brasile, molti cadaveri restano sulle strade, capri espiatori contemporanei, immolati sull’altare dei festeggiamenti. Nel ’500, la svolta Ma fra Cinque e Seicento qualcosa cominciò a cambiare: «La Controriforma, cioè la risposta cattolica alla riforma protestante, segnò infatti il passaggio tra il Carnevale ancora violento e quello non cruento e tipico dell’età moderna». Così, per esempio, nel 1668, papa Clemente IX abolì definitivamente la corsa degli ebrei nudi per la città, uno spettacolo carnevalesco ignobile a cui i romani non avrebbero altrimenti mai rinunciato. San Carlo Borromeo (1538-1584), cardinale di Milano, nutriva una particolare avversione per il Carnevale e nel 1571 era riuscito a ottenere dal duce di Albuquerque una grida che vietava alle donne di mascherarsi. I Gesuiti, invece, decisero di celebrare le Sante Quarantore durante il Carnevale, con spettacoli teatrali che avevano lo scopo di sottrarre i fedeli alle feste carnevalesche. «Lentamente, quindi, i riti teatrali cominciarono ad avere il sopravvento su quelli sacrificali. Sempre a Roma, durante il Carnevale, prese piede la ”giudiata”, un genere di rappresentazione che si svolgeva su carri adorni di alloro e di fronde, tirati da buoi, con accompagnamento di lunghissime cantilene alternate e chiuse da un ballo» prosegue Bernardi. Nel XVI secolo si affermò in Italia anche la commedia dell’arte, caratterizzata dal fatto che gli attori non avevano un testo su cui recitare, ma solo un canovaccio, e dovevano dunque essere molto bravi a improvvisare. I personaggi venivano identificati dalle maschere: Arlecchino e Brighella erano i servitori, Colombina e Corallina le servette, Pantalone il vecchio. «Le prime compagnie professionali si formavano per il Carnevale e si scioglievano in Quaresima» spiega Bernardi. «Ma una professione di carattere solo stagionale non poteva durare a lungo e pian piano i comici dell’arte cominciarono a recitare tutto l’anno, esclusi i giorni interdetti dalle autorità civili e religiose». Anche se la stagione più ambita continuò a essere il Carnevale, il teatro riuscì a emanciparsi totalmente dalla festa. L’effervescenza collettiva cedeva il passo all’esaltazione tecnica e professionale dell’attore, la follia alla tecnica. «L’intervento della Chiesa cattolica da una parte e la teatralizzazione della festa dall’altra, svuotarono dunque il Carnevale dei suoi contenuti» dice ancora il professor Bernardi. «Con l’avvento della rivoluzione industriale e della società dei consumi, la gente cominciò a perdere gradualmente interesse nei confronti del Carnevale, che però dimostrò sempre una grande e improvvisa capacità di rinascita». Come dimostrano i sonetti che nell’Ottocento il poeta Giuseppe Gioachino Belli dedicava al Carnevale ogni anno. E come dimostrano le migliaia di persone che ancora oggi e dopo settecento anni affollano i nostri carnevali più caratteristici, da Fano a Putignano, da Venezia a Viareggio. In fondo, per dirla ancora col Belli: «Otto ggiorni che ssò contr’a cquaranta?/ Bbe’, a tutt’oggi oggni sorte de schifenza,/ E ddomatina scénnere e acqua-santa/E sse fa la bbucata a la cusscenza».