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 2005  novembre 14 Lunedì calendario

C’è un secolo di storia in quelle fotografie esposte nell’elegante studio di Pucci Scafidi, un giovanotto palermitano di quarant’anni che mastica scatti fotografici e cronaca, personaggi e reflex, eventi e flash da quando era ”picciriddu” (bambinetto) e il padre, Nicola Scafidi, uno dei fotoreporter più bravi del dopoguerra (è morto pochi mesi fa), gli insegnava i segreti della camera oscura, l’arte quasi magica di ”tagliare” gli scatti già nel momento in cui l’immagine prende forma, prima lattescente, poi via via più incisa – bianchi neri grigi – sulla carta immersa nell’acido e scossa dalla mano sapiente dell’artista-fotografo

C’è un secolo di storia in quelle fotografie esposte nell’elegante studio di Pucci Scafidi, un giovanotto palermitano di quarant’anni che mastica scatti fotografici e cronaca, personaggi e reflex, eventi e flash da quando era ”picciriddu” (bambinetto) e il padre, Nicola Scafidi, uno dei fotoreporter più bravi del dopoguerra (è morto pochi mesi fa), gli insegnava i segreti della camera oscura, l’arte quasi magica di ”tagliare” gli scatti già nel momento in cui l’immagine prende forma, prima lattescente, poi via via più incisa – bianchi neri grigi – sulla carta immersa nell’acido e scossa dalla mano sapiente dell’artista-fotografo.
Nicola Scafidi, il papà di Pucci, non era solo uno straordinario fotografo di cronaca, un fotoreporter che sembrava cresciuto alla scuola americana dei Frank Capa anche se non era mai stato in America e il suo mondo era Palermo e la Sicilia amara (amarissima) degli anni Cinquanta e Sessanta (e lo testimoniano migliaia di fotografie fatte per ”L’Ora”, il leggendario quotidiano del pomeriggio di Palermo), ma era anche un perfetto e brillantissimo fotografo di scena. Lo documentano le foto esposte in questi giorni e fino a marzo nella galleria palermitana del figlio Pucci, in via Gaetano Daita 42b, e presentate sotto il titolo ”La Sicilia e il cinema”. Nicola Scafidi era, infatti, il fotografo preferito da registi che hanno fatto la storia del cinema italiano. Registi come Roberto Rossellini, come Luchino Visconti, come Francesco Rosi, come Damiano Damiani.
Registi che hanno dato, se così si può dire, spessore di racconto (cinematografico) a quella famosa espressione di Wolfgang Goethe: «L’Italia non si capisce senza la Sicilia». Per esempio, si può capire il dramma – ché di dramma si è trattato - dell’unificazione italiana senza aver letto e compreso ”Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e visto l’omonimo film di Luchino Visconti?
Lo sguardo intenso di Alain Delon, colto dall’obiettivo di Nicola Scafidi mentre si prepara al trucco sul set della pellicola di Visconti, sembra ricordarci ancora i sogni e poi il cinismo di quella generazione di Tancredi: cambiare tutto perché nulla cambi.
E, proprio sulla parete di fronte, ecco la gestualità imperiosa di Francesco Rosi che dà ordini allo staff della cinepresa mobile mentre un Gian Maria Volontè-Enrico Mattei sorride alle folle contadine di Gagliano Castelferrato, Sicilia profonda e sconosciuta, e promette un avvenire di sviluppo grazie al petrolio e alle trivelle dell’Agip.
Ed ecco Damiano Damiani che dirige Franco Nero, il capitano dei carabinieri del ”Giorno della civetta”, l’antropologia mafiosa per la prima volta raccontata senza ipocrisie nel romanzo di Leonardo Sciascia.
La Sicilia e il cinema è il titolo della mostra ed è emozionante sorprendere attori e registi un attimo prima del ciak che divide il tempo della fiction dal tempo della realtà. Ma potrebbe intitolarsi anche ”La Sicilia e Nicola Scafidi”, perché l’obiettivo del fotoreporter, anche sul set, riesce a cogliere quell’imponderabile ”mood” che si suole chiamare ”sicilianità”. Ed è proprio qui la differenza.