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 2005  ottobre 05 Mercoledì calendario

Piperno: l’Italia non esiste ma il disimpegno ci salverà. Corriere della Sera 05/10/2005. «Non potrei affermare che l’impegno per un letterato sia in sé una distorsione, però

Piperno: l’Italia non esiste ma il disimpegno ci salverà. Corriere della Sera 05/10/2005. «Non potrei affermare che l’impegno per un letterato sia in sé una distorsione, però...». Alessandro Piperno, l’autore del romanzo più discusso dell’anno, Con le peggiori intenzioni, non dimentica certo di essere anche un critico, con particolare attenzione alla letteratura francese del Novecento. «Ritengo Sartre e Camus imprescindibili, ma il loro engagement mi pare la cosa più deperibile: quel che mi interessa è il loro stile e il mondo che hanno saputo creare, assai più che l’ideologia». A chi gli parlasse della necessità di un impegno politico, Piperno risponderebbe come risponde nei Sillabari un alter ego di Parise: «Può darsi, non me ne intendo». Insomma: «Non credo nell’impegno in letteratura perché esso implica un’assunzione di responsabilità, e uno scrittore deve avere diritto all’irresponsabilità». Che significato dare all’idea di irresponsabilità in letteratura? «La letteratura è una cosa inutile che va trattata con serietà religiosa. Non vedo perché uno scrittore dovrebbe addossarsi responsabilità sociali. La sola divinità a cui è chiamato a rispondere è lo stile. D’altra parte non credo esistano temi degni di essere trattati». L’allusione è alla critica che ha accusato il suo romanzo di essere politicamente scorretto. «Gli scrittori che parlano di obiettivi civili mi fanno venire l’orticaria». Riprovevoli? «No, non sono biasimevoli, sono autori di esperimenti naufragati». Un esempio? «I Surrealisti. A chi interessano più se non agli specialisti? O la letteratura d’avanguardia anni ’70: l’ideologia, i manifesti, le dichiarazioni d’intenti hanno ghiacciato la vena tramutando in scacco le loro legittime aspirazioni alla libertà espressiva». E poi? «Diciamo che faccio mio il motto di Nabokov: i miei piaceri sono i più intensi che l’uomo conosca, scrivere e cacciare farfalle». Vale più o meno la stessa cosa per i critici? «Per il critico secondo me valgono le tre p di Baudelaire: passionné, politique e partiel (appassionato, politico e parziale). Ecco, un critico deve avere il coraggio di armarsi delle tre p baudelairiane e affrontare il testo con questa corazza: deve essere più intelligente dello scrittore, al quale è concessa una dose di stupidità. Pensi a Stendhal e alle sue sublimi inconsapevolezze». Dunque, all’opposto degli scrittori i critici devono essere ideologici e faziosi? «Devono essere idiosincratici: è la faziosità che rende grande un critico». Qualche nome? «Nessuno è più fazioso di Giacomo Debenedetti quando sceglie Saba su Montale, che pure è indiscutibilmente più complesso e grande di Saba. E’ evidente che nella sua valutazione Debenedetti si lascia influenzare da fattori extraletterari che affondano nella sua biografia di ebreo laico. Sono scelte come queste che aprono spazi alla discussione critica. Un altro esempio: Debenedetti accusava Svevo di non aver dato un’identità ebraica ai suoi personaggi... Non le pare un argomento che dovrebbe esulare dalle competenze di un critico? Eppure quel saggio è un caposaldo nella bibliografia sveviana». In questo senso, allora, non c’è critico più critico di Contini. «Contini e Longhi... Avevano il potere di raccontare la realtà stravolgendola con lo stile. Baudelaire una volta raccontò un aneddoto». Quale? «Un giorno Balzac visitando un Salon si soffermò su un quadretto insignificante: una casetta, un fumo che ne usciva, un po’ di neve. I suoi allievi gli chiesero: maestro, ma perché le interessava tanto quella crosta? Balzac rispose: chissà chi ci abita in quella casa, chissà quanti debiti ha quella famiglia. Baudelaire postillava: ecco cos’è per me fare critica, mettere insieme quel che c’è nel quadro e quel che c’è nel critico». Altra cosa è il critico sociale, impegnato. Un Pasolini. «Pasolini è l’esempio più nobile di scrittore engagé: si è sporcato le mani con tutti i generi e le forme d’arte, però ciò che resta di lui è il contributo intellettuale del corsaro più che del narratore o del poeta». Può sembrare un paradosso che a Piperno piaccia il «corsaro». Eppure: «Mentre amo un narratore autentico come Parise perché scevro da pregiudizi e aperto alla realtà e al senso della vita, sono convinto che Pasolini fallisca come narratore proprio per il motivo opposto. Per il suo moralismo. In compenso come critico sociale è grande per la nettezza apocalittica della sua visione (tra l’altro per me non sempre condivisibile ma questo non è importante)». Torniamo agli scrittori cacciatori di farfalle: «Gli alfieri del disimpegno hanno nobilitato la nostra letteratura novecentesca: Svevo, Tozzi, Montale, Ottieri, ma soprattutto Gadda. Un borderline ricurvo su se stesso capace di un respiro universale». Come Calvino? «Considero Calvino un autore di intrattenimento. Non deve meravigliare che sia lo scrittore italiano più famoso all’estero, è semplicemente il più leggero e accessibile. Non amo gli scrittori alla Borges che giocano con la letteratura». Tra gli autori «fatui e comunicativi», accanto a Borges e Calvino, Piperno colloca un altro mostro sacro del Novecento: García Márquez: «Scrittore delizioso che sembra fatto di panna montata, e che ha trasformato la letteratura in un lussuoso gioco fine a se stesso». Piperno esibisce le sue carte: «Sa qual è la controprova?» Quale? «Il dato essenziale per me come scrittore e come critico è l’esistenza: deve essere al centro del fatto letterario. Basta leggere l’incipit della seconda parte della Cognizione del dolore ». Quella che comincia «Vagava, sola, nella casa...» e racconta di una madre che ha appena saputo della morte del figlio? «In quella pagina c’è tutto: lo stile è al servizio del più terribile dramma che si possa concepire. Non è affatto detto che la letteratura disimpegnata debba essere letteratura disincarnata». Ecco il punto. Letteratura incarnata vs letteratura impegnata: «Credo che una conquista importante della narrativa moderna sia la rivalutazione del dato autobiografico, quella che i francesi chiamano autofiction: così i grandi scrittori d’oggi riescono a trasformare l’autobiografia del singolo individuo in autobiografia di un intero Paese. Penso ad Amos Oz, a Coetzee, a Martin Amis, a Philip Roth. Certo, hanno la fortuna di non vivere in Paesi inutili come il nostro». Vuol dire che gli scrittori italiani sono penalizzati dal Paese in cui vivono? «Il problema del nostro Paese è che non esiste. La passione smodata per Berlusconi dei nostri scrittori e dei nostri cineasti è una sconfitta. degradante parlare di un personaggio che non ha nessuna dignità tragica né spessore epico. Non è Eisenhower né Kennedy né Nixon. Da questo punto di vista uno scrittore italiano è notevolmente svantaggiato rispetto a un russo, a un americano, a un israeliano, a un sudafricano. più facile scrivere in un Paese dove la storia cammina». Dunque, meglio semplicemente rinunciare? «Bah, forse a uno scrittore italiano non resta altro che il doping. quello che ho provato a fare. I miei Parioli rispetto all’America dorata e ricca di Fitzgerald sono un piccolo posto di merda, dunque dovevo creare dei miti laddove i miti non c’erano, uscire dalla meschinità quotidiana che mi spingeva verso il basso. Così ho scelto di drogare il mio immaginario. Come vede, non sempre la droga è un crimine». Paolo di Stefano