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 2005  agosto 22 Lunedì calendario

Il codice genetico. La Repubblica 22/08/2005. Le basi per la spiegazione scientifica della vita sono state poste nell´Ottocento da Charles Darwin: dapprima nel 1859, con L´origine delle specie, e poi nel 1871, con L´origine dell´uomo

Il codice genetico. La Repubblica 22/08/2005. Le basi per la spiegazione scientifica della vita sono state poste nell´Ottocento da Charles Darwin: dapprima nel 1859, con L´origine delle specie, e poi nel 1871, con L´origine dell´uomo. Ma è solo nella seconda metà del Novecento che sono stati trovati i meccanismi biologici che hanno dischiuso i segreti della vita: dapprima nel 1953, con la doppia elica di Watson e Crick, e poi nel 1966, con la decodifica del codice genetico da parte di Marshall Nirenberg. Ed è stato lo stesso Nirenberg che ha dimostrato biologicamente la validità della teoria evoluzionistica darwiniana, scoprendo l´universalità del codice genetico per tutte le specie. Gli abbiamo chiesto di ripercorrere i tratti salienti delle sue scoperte, che l´hanno portato al premio Nobel per la medicina nel 1968. Quale fu l´idea di partenza per la scoperta del codice genetico? «Quella di lavorare con un RNA costituito da una sola lettera, la U, e di cercare di stabilire se esso corrispondeva a qualcuno dei venti aminoacidi conosciuti. Facemmo venti diverse soluzioni, in ciascuna delle quali uno solo dei venti aminoacidi era radioattivo, e determinammo per quale di essi la sequenza di sole U funzionava come messaggero». Quando fu divulgata la sua scoperta? «Al Congresso di Mosca del 1961, dove incontrai per la prima volta Watson. Mi presentai e gli dissi di cosa avrei parlato, ma lui non credette al risultato. Mandò però un suo amico, Alfred Tissières, a sentirmi: c´erano solo una trentina di persone, tra cui una meravigliosa russa che faceva funzionare un enorme proiettore, alto come me. Tissières credette alla nostra dimostrazione, e in qualche modo Crick lo venne a sapere». Non conosceva nemmeno lui, all´epoca? «No. Il mio primo incontro con Crick fu in un corridoio, quando mi annunciò che voleva che ripetessi la mia comunicazione nella sezione del congresso che lui presiedeva. Questa volta c´erano più di mille persone, e alla fine non solo mi applaudirono fragorosamente, ma gente che non avevo mai visto venne ad abbracciarmi: fu un´esperienza straordinaria, e io non mi ero mai sentito così». Cioè, come Champollion che decifra il primo cartiglio della stele di Rosetta? «Sì. Avrei voluto correre a casa e riprendere il lavoro, ma mi ero sposato proprio prima di partire per Mosca: mia moglie mi aspettava a Copenaghen per andare in viaggio di nozze, e benché avessi altro per la testa pensai che in fondo ci si sposa una volta sola, e il laboratorio poteva aspettare». E dire che lei non era neppure un membro del Club delle Cravatte di Gamow... «Oh, Gamow! stato la persona più interessante che abbia mai incontrato: un orsone che beveva e fumava in continuazione, tenendo la sigaretta tra l´anulare e il mignolo. A pranzo poteva intrattenere da solo mezza dozzina di persone per ore, parlando sempre lui». E poi fondò il Club della Cravatta. «Sì, venti membri associati ai venti aminoacidi, con tanto di fermacravatte: lui aveva ALA, per "alanina". Suo figlio mi ha raccontato che una volta a Las Vegas voleva incassare un assegno di 500 dollari, ma il direttore rifiutò perché non lo conosceva. Allora lui andò in libreria e comprò uno dei suoi libri, con la foto sulla copertina. La cosa stava per funzionare, ma il cassiere si accorse che il fermacravatte non corrispondeva alle sue iniziali, e non ci fu niente da fare». Mi sembra che le piacesse molto, da come ne parla. «Era meraviglioso, come i suoi libri». Negli anni Sessanta lei paragonò il codice genetico a un programma di computer, che prende il DNA come input e restituisce le proteine come output. «Mi piaceva molto l´idea che le cellule contengano robot autosufficienti, che sintetizzano proteine sulla base di qualunque programma venga loro fornito. Ma fin da subito misi in guardia sui pericoli di una programmazione umana del DNA, dicendo che non bisognava farlo fino a quando non si fossero conosciute esattamente le conseguenze di ciò che si voleva fare». E come si possono conoscere, senza provare? «Intendevo dire che bisognava essere molto cauti». Ma nel suo discorso per il premio Nobel lei predisse: «L´uomo influenzerà la sua evoluzione biologica». «Nel 1967 avevo fatto una predizione anche più accurata: che in 25 anni si sarebbe potuto usare il DNA per programmare trasformazioni di cellule umane. Una predizione che, per caso, si è avverata alla lettera». Come mai ha detto che gli anni della neurobiologia furono i più felici della sua vita? «Decifrare il codice genetico fu un´esperienza eccitante: tutto funzionava alla perfezione, e facevamo nuove scoperte ogni settimana. Ma io lavoravo a più non posso: praticamente, per cinque o sei anni ho scritto un lavoro ogni mese e mezzo. A un certo punto doveva finire, perché non avevo neppure più il tempo di aggiornarmi: mi sembrava di cavalcare una tigre. Così sono saltato giù dalla tigre, ho cambiato campo, ed è stata una vera liberazione: di colpo avevo il tempo di leggere e riflettere, o anche solo di dormire la mattina se avevo ancora sonno, o di andare al cinema e vivere una vita normale. Decifrare il codice è stata una grande felicità, ma dopo sono stato ancora più felice». E quale sogno le è rimasto? «Di lavorare ancora a qualcosa di veramente importante». Non c´è mai una fine? «No, perché è molto divertente ed eccitante, fino a che uno riesce a farlo. E ci sono meravigliosi problemi aperti in neurobiologia». E quale dei problemi sui quali ha lavorato ha avuto il maggiore impatto su di lei? «L´universalità del codice genetico. Naturalmente sapevo tutto dell´evoluzione, ma scoprire che i codici di varie specie (un batterio, una rana e un mammifero) erano identici fu una vera epifania: ora c´era la dimostrazione che abbiamo tutti un´origine comune. Da allora, quando guardo fuori della finestra e vedo dell´erba, un albero o uno scoiattolo, sento che sono tutti legati a me, e che tutti usiamo lo stesso linguaggio biologico. Benché io non sia per nulla religioso nel senso convenzionale, direi che si tratta di una visione panteistica, che mi lega a tutte le forme di vita». Piergiorgio Odifreddi