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 2005  aprile 29 Venerdì calendario

Attilio Bolzoni, Il Venerdì 29/4/2005. Li svegliarono di notte, verso le tre. E a uno a uno li portarono nella caserma sotto la montagna, la più lontana, quella che sfiorava gli ultimi giardini della Conca d’Oro

Attilio Bolzoni, Il Venerdì 29/4/2005. Li svegliarono di notte, verso le tre. E a uno a uno li portarono nella caserma sotto la montagna, la più lontana, quella che sfiorava gli ultimi giardini della Conca d’Oro. Li chiusero tutti in tre stanzoni rischiarati da una luce fioca, poi qualcuno sentì una voce che veniva dal fondo: "Tenetevi pronti, sta per esplodere una rivolta all’Ucciardone". Erano quasi cento i poliziotti che altri poliziotti avevano infilato lì dentro, trascinati ìn un fortino che sembrava una prigione. Sbirri sequestrati da sbirri. All’alba scoprirono che li avevano isolati per farli stare muti, tenerli per un po’ distanti dalla città. E all’alba apparve all’improvviso il vecchio questore Vincenzo Immordino, spalancò una porta, si avvicinò ai commissari e agli agenti scelti della sua Squadra Mobile. Parlò poco. Disse soltanto: "All’Ucciardone dormono tranquilli, non ci sono sommosse, voi siete qui per fermare certe persone". Consegnò nelle mani di quegli uomini un pezzo di carta, un ordine di cattura. Sopra c’erano i nomi di cinquantacinque boss. Era l’aristocrazia mafiosa siciliana. Nella notte tra Il 4 e li 5 maggio ci fu una retata in gran segreto. L’anno era il 1980. Neanche uno ne sfuggì, per la prima volta li presero tutti. Fu in quel momento, venticinque anni fa, che cambiò per sempre la storia di Palermo. Si chiamavano Spatola, Inzerillo, si chiamavano Gambino e Di Maggio, erano i rampolli delle "famiglie" più ricche e influenti dell’isola. I loro padri e i loro zii avevano lasciato le borgate di Passo di Rigano e dell’Uditore nel 1964 e si erano sisternati a Cherry Hill, nel New Jersey. Erano tutti imparentati tra loro, un incrocio di matrimoni tra cugini, legami di sangue e legami di soldi. Avevano un impero." Per la Dea, la Drug Enforcement Administration, l’avevano fatto con la droga. Ogni anno ne spedivano quintali da una parte all’altra dell’Atlantico, morfina base per 20 mila miliardi di lire. Impararono a raffinarla da monsieur Doré e da monsieur Bosquet, chimici marsígliesi che soggìornarono a lungo nelle campagne della Milicia per lavorare la "pasta". E poi avevano nelle loro mani una settantina di onorevoli, ricattavano banchieri, frequentavano ministri, erano amici di editori e cardinali e baroni, controllavano voti, distribuivano lavoro e prebende. Ma quella notte, per loro fu l’inizio della fine. Prima vennero travolti dalla repressione poliziesca e poi cancellati dalla faccia della terra dalla violenza dei Corleonesi. Nelle loro borgate sopravvissero solo le donne. Anche i barnbini non si salvarono. "Di quelli lì non dove rimanere neanche il serm", sibilò Totò Riina ai suoi sgherri quando un giorno gli portarono davanti il figlio undicenne dì Salvatore Inzerillo. Gli amputarono il braccio destro con un coltellaccio e mentre lo macellavano gli dicevano "così non potrai più sparare, così non potrai più vendicare tuo padre", e poi lo finirono con una pallottola in mezzo agli occhi. In un anno e mezzo settanta contadini di Corleone, i "peri incritati", i piedi sporchi di fango spazzarono via i capi dell’organizzazione criminale pìù potente del mondo occidentale. In un anno e mezzo, mille ne uccisero e forse anche più. Con le pistole e con la "lupara bianca", i rapimenti silenziosi, cadaveri inghiottiti nel nulla. Nei reportage giornalistici e nelle sentenze dei Tribunali la definirono la " grande guerra di mafia" ma quella non fu una vera guerra, i morti si contarono solo e sempre da una parte. Fu uno sterminio. Quella vicenda siciliana è ancora oggi un grande mistero nonostante sprazzi di verità giudiziaria, ricostruzione molto parziale di quel "romanzo nero" che svelò una Palermo capitale di intrighi e di sangue. Comunque un’epoca fìnì per sempre, in quella primavera di un quarto di secolo fa. E tutto cominciò proprio quella notte, nelle ore che scivolarono tra il 4 e il 5 maggio. Il vecchio questore Immordino non si fidava di molt, soprattutto non si fidava di Bruno Contrada, il poliziotto più famoso della città, il capo della Criminalpol che una dozzina di anni dopo sarebbe stato arrestato per connivenza. Contrada fu lasciato dormire, non lo avvisò nessuno "che c’era una rivolta all’Ucciardone". I boss finirono tutti al settimo braccio ma non ebbero il tempo di farsì il carcere "con dignità" come piaceva a loro, "buttane" e aragoste vive nell’infermeria, secondini al loro servizio, visite e pacchi di viveri a ogni ora del giorno. Non era più il Grand Hotel Ucciardone di una volta. Era diventata galera anche per i discendenti delle "famiglie" dominanti. E mentre stavano dentro, fuori cominciarono a scoprire tutto sulle loro trame. Mesi prima avevano nascosto Michele Sindona in fuga da New York. E avevano mandato un sicario a Milano per uccidere quel galantuomo che era l’avvocato Giorgio Ambrosoli. E avevano assassinato il segretario della De Michele Reina, il capo della Mobile Boris Giuliano, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il presiìdente della Regione Piersanti Mattarella. Ebbero il tempo di far fuori anche Gaetano Costa, il procuratore che in solitudine firmò quei 55 ordini di cattura. Erano i primi delitti "eccellenti" di Palermo. Ne sarebbero arrivati tanti altri, negli anni a seguire. Ma non furono mai più decisi da quella aristocrazia mafiosa. Perché loro, i Di Maggio, i Gambino, gli Inzerillo e gli Spatola, oramai non c’erano più. Al loro posto era arrivato Totò Riina e la sua Cosa Nostra. Finirono male i "bravi ragazzi" che sembravano usciti dal Padrino di Mario Puzo con quei volti picareschi, quella camminata arrogante - "l’annacata", muoversi ma dando l’impressione di stare fermi - quei nomi così siciliani e sempre gli stessi generazione dopo generazione: Santino, Saruzzu, Totuccio. Finirono incastrati daile prime inchieste dell’allora sconosciuto giudico istruttore Giovanni Falcone che incrociò i loro assegni come nessuno aveva mai fatto prima, finirono al massacro quando i sicari di Corleone decisero di togliere di mezzo i vecchi padroni di Palermo. Fu una grande mattanza. C’erano giorni che ne cadevano sei o sette di quei vecchi boss, omicidi di massa nei loro regni. In una strada che era un i budello lungo un’ottantina di metri, via Conte Federico, ne uccisero in sette mesi del 1982 più di cento. Era la strada della morte di Brancaccio, un tempo borgata con gli orti più fertili della Sicilia e poi mattatoio di mafia. Il primo della lista fu allora quello che era anche il primo della Cupola. A Palermo lo conoscevano come il "Principe di Villagrazia", era Stefano Bontate. Lo spensero nel giorno del suo quarantaduesimo compleanno. Con un Kalashnikov che un anno dopo usarono per uccidere anche il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era la doppia strategia dei nuovi signori della Sicilia, quelli di Corleone: l’attacco interno alla Cosa Nostra e l’attacco allo Stato. Palermo diventò Beirut e Chicago insieme. Prima del prefetto generale uccisero il segretario siciliano del Pci Pio la Torre e poi il consigliere istruttore Rocco Chinnici, due capitani dei carabinieri, due commissari e sei poliziotti, otto imprenditori, un sindaco appena dimesso e qualche decina di i scomodi testimoni. Comandavano ormai i "contadini" scesi dai boschi della Rocca Busambra, l’avevano conquistata loro Palermo. Uno dei pochi superstiti di quella mafia che era stata sovrana in Sicilia, già fin prima dello sbarco degli Alleati, fu un palermitano della Kalsa con la faccia da indio. Se n’era andato dalla sua terra tanti anni prima, se n’era andato lontano, in Brasile. Quando tornò decise subito di "parlare" con Falcone. E Tommaso Buscetta raccontò come ora finita la sua mafia "buona", come erano finiti i suoi figli e i suoi nipoti, i suoi amici Stefano Bontate e Totuccio Inzerillo che secondo lui erano i capi di un’Onorata Società. Si confessò al giudice: "Non sono un infame, non sono un pentito, non ho tradito Cosa Nostra. Cosa Nostra che ha tradito se stessa". E avvertì Falcone: "Si ricordi dottore, questi Corteonesi sono le persone più abiette che il mondo abbia avuto dopo Nerone"