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 2005  aprile 27 Mercoledì calendario

Lagorio Gina

• Brà (Cuneo) 6 gennaio 1922, Milano 17 luglio 2005. Scrittrice. Dopo la laurea in Letteratura Inglese a Torino, inizia a lavorare come insegnante e a collaborare con giornali e riviste. Sposa Emilio Lagorio, protagonista della Resistenza, che muore nel 1964. Il successo letterario arriva nel 1969 con Un ciclone chiamato Titti (BUR). Nel 1974 si trasferisce a Milano, dove si risposa con l’editore Livio Garzanti. Nel 1987 è eletta in Parlamento tra gli indipendenti di Sinistra. Tra i suoi libri, ricordiamo Tosca dei gatti (Garzanti), Il bastardo, ovvero gli amori, i travagli e le lacrime di Don Emanuel di Savoia (BUR), La spiaggia del lupo (Garzanti), Tra le mura stellate (BUR). «La cifra narrativa di Gina Lagorio, una cifra alla quale la scrittrice è rimasta sostanzialmente fedele per tutta la vita, deriva da una sintesi alquanto inusitata fra intimismo e realismo, o meglio fra la necessità di esprimere per via romanzesca vicende, miti e fantasmi strettamente legati al proprio vissuto, e quella di inserire tutto questo in una realtà più ampia e articolata, desunta sia dai percorsi storici del presente che dalle memorie depositate negli archivi del passato. sempre stato per lei come se l’invenzione narrativa dovesse di necessità restringersi ai dettagli, intaccando solo in minima parte il tronco robusto dei fatti realmente avvenuti: quasi una remora etica, si direbbe, uno scrupolo di verità collegato a un forte senso di responsabilità politica, tanto nel vivere che nello scrivere. Piemontese di Bra, laureatasi in letteratura inglese nella Torino di Giulio Einaudi, Cesare Pavese e Beppe Fenoglio, aveva potuto maturare un’idea di impegno che al rigore un po’ manicheo delle sue origini sapeva unire una più larga considerazione della vita, delle contraddizioni dei sentimenti, delle difficoltà che si incontrano nel tentare di far coincidere pubblico e privato. Si veda Approssimato per difetto, forse il suo romanzo più noto, uscito nel 1971: la vicenda autobiografica della morte precoce del marito e dei suoi ultimi mesi di vita si allarga immediatamente fino a sostanziarsi non solo della dolorosa rievocazione della sua vicenda di antifascista militante, poi deluso dalla libertà conquistata a così caro prezzo, ma anche di un’appassionata riflessione sulla solitudine cui il malato si autoinduce, sul suo ”tagliare i ponti” anche con gli affetti più cari, sul suo parossistico concentrarsi su se stesso e sul senso della propria esistenza. Nella narrativa di Gina Lagorio (edita prevalentemente da Garzanti e Rizzoli) c’è insomma, ineludibile, la presenza di una tensione ”saggistica” che la apparenta ad esperienze molto più straniere che italiane (inevitabile [...] il riferimento alla Yourcenar), e che agisce come strumento di convalida morale e politica per le storie messe a disposizione dei lettori. una tensione che si avverte in molte delle sue opere, da La spiaggia del lupo (1977) a Fuori scena (1979) a Tosca dei gatti (1983) a Golfo del paradiso (1987), e che raggiunge il suo acme in Tra le mura stellate (1991), una delle sue prove narrative più convincenti, che vede come protagonista la cittadina piemontese di Cherasco, con le varie tranches de vie in essa avvicendatesi dalla sua fondazione fino al presente: tutte storie realmente accadute, riconquistate attraverso un paziente lavoro sugli archivi comunali, e poi filtrate da un’immaginazione mitica formatasi per la scrittrice negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza; fino a invadere quasi totalmente la scena in Il bastardo ovvero Gli amori, i travagli e le lacrime di Don Emanuel di Savoia (1996). La vocazione saggistica aveva comunque trovato il modo di manifestarsi anche senza travestimenti narrativi, esercitandosi nella critica letteraria, nell’osservazione del costume, nella memorialistica. Basterà ricordare Fenoglio (1970), Sbarbaro: un modo spoglio di esistere (1981), Inventario (1997), L’arcadia americana (1999), nonché l’edizione, in collaborazione con Vanni Scheiwiller, dell’opera poetica di Camillo Sbarbaro (L’opera in versi e in prosa, 1985). Forse solo nei racconti, e in particolare in quella vera e propria antologia personale costituita da Il silenzio (1993), l’autrice si sentiva libera di dar preminenza al privato, al gioco ora consolatorio ora feroce dei sentimenti, ai meccanismi spesso misteriosi che regolano l’universo familiare. Ma si trattava probabilmente, nella sua visione, di nugae, di testi programmaticamente ”minori”, e quindi liberi dalle responsabilità storiche e politiche del romanzo e della vita: quelle responsabilità, ad esempio, che l’avevano condotta a sedere sui banchi della Sinistra Indipendente in Parlamento, e che avevano segnato, nel lungo sodalizio editoriale e umano con Livio Garzanti, i tratti distintivi dei suoi interventi e delle sue scelte» (Stefano Giovanardi, ”la Repubblica” 18/7/2005) • «Collaboratrice di quotidiani e di riviste (alcuni interventi sono stati raccolti da Franco Mollia nel volume dell’84 Penelope senza tela), autrice di programmi culturali per la Rai, scrittrice di libri per ragazzi e di teatro (con la commedia Raccontami quella di Flic nel 1983 aveva vinto il premio Flaiano), dispensatrice di testi propri e curatrice di testi altrui, era rimasta legata al senso di un lavoro letterario che non poteva dissociarsi dall’impegno etico e civile (per una legislatura è stata anche deputato della Sinistra Indipendente). [...] l’ultimo libro, Càpita [...] racconta la cronaca dell’ictus che l’aveva colpita nel gennaio 2003. Era tenace, era polemica, era ostinata, poteva sembrare aspra. Ma era generosa. Milano è stata per lei il terzo polo di una vita vissuta anagraficamente e sentimentalmente tra Piemonte e Liguria. ”Milano - disse una volta - conta, ma è un acquisto successivo. I luoghi che mi hanno radicato alla vita in modo inoppugnabile e irriducibile sono stati Piemonte e Liguria”. Nata a Bra nel 1922, era sempre rimasta legata alla cittadina in provincia di Cuneo che s’affaccia sul belvedere delle Langhe di Pavese e di Fenoglio (a Fenoglio dedicò un saggio). A Torino il miraggio degli studi universitari, i viaggi di fortuna fatti spesso in vagoni bestiame pieni di operai, gli esami brillanti, la tesi di laurea (’in un appartamento, perché Torino era bombardata”) sull’influsso della poesia sepolcrale inglese in Italia. A Savona l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, il primo matrimonio con Emilio Lagorio, protagonista della Resistenza e della vita pubblica della sua città nel dopoguerra, scomparso nel ”64 per un cancro, già protagonista del primo romanzo Approssimato per difetto (1971), la storia più rischiosa e nello stesso tempo asciutta e struggente di una bibliografia non certo incolpabile di morbidezze (Emilio Lagorio è tornato a essere il protagonista di un più piccolo e diverso libro pubblicato da Viennepierre [...] Raccontiamoci com’è andata, in cui è spremuto tutto il succo di un’antiretorica e civica lezione di rigore morale e di decenza di vita). Ancora a Savona le due figlie, l’insegnamento, gli incontri decisivi con Camillo Sbarbaro, Angelo Barile, Adriano Grande, e poi Betocchi, Caproni, Giudici. Barile e Sbarbaro su tutti (sulla poesia di Barile il saggio Angelo Barile e la poesia dell’intima trasparenza nel ”73, lo stesso anno della biografia Sbarbaro controcorrente, poi diventato nell’81 Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere). In tutt’e due un’umanità scavata fino al più quotidiano culto dell’essenziale. Legati a quella proda, dopo l’esordio, gli altri romanzi più marini, scritti facendo ormai la spola con Milano: La spiaggia del lupo (1977), Tosca dei gatti (1983, premio Viareggio), Golfo del paradiso (1987). Ma tra Milano e Cherasco i romanzi più piemontesi: Fuori scena (1979), Tra le mura stellate (1991), Il bastardo ovvero Gli amori, i travagli e le lacrime di Don Emanuel di Savoia (1996). Romanzi che trasformano le pietre dei palazzi cheraschesi in paesaggi interiori, nella fascinazione di uno spazio protetto, nei suoni dellamemoria e dell’oblio con cui il tempo modella lo spazio. Sia narrando la storia di un incontro che coinvolge l’intera vita, sia raccontando la malinconia di Don Emanuel di Savoia, figlio naturale di Carlo Emanuele I, nato dagli amori del duca ”Testa di fuoco” (il rimatore Cloridoro) con la timida e docile Louise dalle iridi celesti incontrata nel castello di Duyn a specchio del lago d’Annecy, Gina Lagorio sa trarre dal paese dall’aria chiara - Cherasco, suo luogo dei luoghi - le risonanze più intime e segrete. Dei tre è forse Tra le mura stellate l’esito più sicuro. Dagli archivi compulsati e dagli itinerari percorsi scaturisce ”un mosaico storico disperso”, un amoroso rompicapo ”dove il senso di quel che è stato non va perduto”. Alcune storie di amore e morte ma anche di levità mozartiana e persino di spavalda monelleria che di figura in figura popolano il silenzio di una città chiusa nella nebbia stregata entro cui ogni cosa fantasmaticamente si muove. Gina Lagorio è stata scrittrice di racconti ed è più ancora nei racconti che nei romanzi la sua cifra pienamente persuasiva. A cominciare dal libro d’esordio, Il polline (1966), per arrivare al libro più bello, Il silenzio (1993), e poi a Inventario (1998) e a L’elogio della zucca (2000). Nell’ultimo, uno splendido elogio della pianta più ”ilare e gentile, inerme e generosa, spontanea e sorridente che si possa immaginare in un orto”. L’umile zucca che dà ”con un cuore più grande delle sue deboli forze”» (Giovanni Tesio, ”La Stampa” 18/7/2005) • «[...] stretta in anni italiani di grande narrativa, fra la Ginzburg, Calvino, Moravia, Cassola, la Morante, stretta in un fazzoletto di territorio, fra Alba e Bra, indagato, messo a nudo, cantato da Pavese e Fenoglio, e Arpino, cosa poteva fare se non fuggire un paesaggio e le sue storie già vissute e scritte. Langa e Roero di guerra e malaesistenza, di dolore collettivo e sofferenza individuale, ma anche di ricchezza inventiva ed estro, così tracciate dalla scrittura di Fenoglio, Pavese, Arpino. Una ragazza, una giovane donna che vuole scrivere, cosa può fare se non fuggire per quelle dorsali forzate che legano il Piemonte verso la Liguria e la Lombardia, da dove ritrovare le proprie radici culturali e un proprio tema narrativo. Le scelse, a pendolo, entrambe, verso Milano e la Garzanti, fra gli scrittori che si chiamavano Parise, Pasolini, Volponi, e verso la Liguria, dove c’era un legame con il mare e la luce. Due amori, forse un risentimento: lontano dall’Einaudi della Ginzburg, Morante, Lalla Romano e dalla appariscente Maraini, e sotto l’ala affettuosa, protettrice, di Livio Garzanti e del suo antagonismo verso il catalogo di autori dello Struzzo. ”Sbarbarella”, come affettuosamente e ironicamente la chiamava il suo amico Antonio Ricci, si incuneò fortemente nella carne letteraria ligure, adottando, seguendo, scrivendo sull’opera di Camillo Sbarbaro, contribuendo, generosamente, vitalmente, a proteggere la figura, umana e poetica, di uno dei nostri grandi poeti del Novecento. ”Molti, la natura li disturba; i più non la vedono. In lei io mi verso. la sola costanza, la sola fedeltà che conosco nell’incertezza del tutto”, era una affermazione di Sbarbaro che la Lagorio amava ripetere, fra il suo paesaggio di Roero e Savonese, e che aveva trovato conferma in un suo ulteriore amore, quell’Oscar Saccorotti, pittore, amato da Montale, Zeri, Tassi e dallo stesso Sbarbaro, che viveva sopra il golfo del Paradiso, a Recco, che dipingeva pettirossi emerli, e costruiva delicati ed eleganti aerei di balsa e bottoni e piume che gli uccelli gli lasciavano in giardino. Perché la ”Gina”, turbolenta e solare, aveva l’attenzione contadina e poetica per le ”piccole cose”, per la fedeltà a un sentire poetico che fosse quello di una educazione verso i valori di una società che mescola i canoni culturali a quelli etici, civili» (Nico Orengo, ”La Stampa” 18/7/2005) • «[...] La sua vita di donna e di scrittrice [...] è percorsa dal desiderio e dal piacere del dono. [...] Le Langhe erano la terra dei nonni paterni e lì l’adolescente Gina passò tutte le sue villeggiature. La famiglia si era già trasferita a Savona, dove il padre faceva il produttore e il commerciante di vini. Si laureò a Torino in anglistica. Raccontò che all’uscita del suo primo libro, Il polline, nel ”66, molti parlarono dell’influsso di Pavese. In realtà se la geografia era pavesiana, il cuore di Gina batteva più per Fenoglio, al quale dedicò una pionieristica monografia. Ma i suoi ”angeli custodi” erano due poeti liguri (ai quali ha dedicato importanti studi): Sbarbaro e Barile, che - avrebbe detto più tardi - le fecero conoscere il senso della scrittura come necessità e ”assiduo insieme estetico ed etico”. La vita solitaria in provincia la aiutò a custodire questo sentimento. Ne vennero fuori due romanzi: Un ciclone chiamato Titti (1969), in cui raccontò senza luoghi comuni gli sconvolgimenti procurati in famiglia dalla nascita del primo figlio, e Approssimato per difetto (1971), scritto in prima persona con la voce di un uomo condannato dalla malattia. Era la voce di suo marito Emilio che sarebbe morto nel ”64. Ma era soprattutto il resoconto, ”lineare e labirintico” lo definì Pampaloni, di una verità: la consapevolezza tardiva di aver vissuto una normalità familiare fra troppe cose non dette, un amore ”approssimato per difetto” che non ha saputo diventare esperienza totale, nonostante il disperato ed estremo tentativo di recuperare il tempo perduto. Ne La spiaggia del lupo (1977), la protagonista Angela, donna matura e forte che ha vissuto un amore con un uomo più giovane che le è stato infedele, riesce a saldare il suo conto esistenziale scisso tra la memoria di un’infanzia trascorsa in Liguria e il caotico mondo della metropoli (Milano), finendo per accettare la propria solitudine grazie alla tenace fiducia nella poesia (ancora Sbarbaro, ancora Barile). Gina Lagorio è indubbiamente scrittrice autobiografica. Tutto parte da una vita vissuta pienamente, a volte con dolore a volte con allegria, per farsi riflessione intensa sulla difficoltà di mettersi in relazione con il mondo e per riannodare i fili tra memoria e presente. Elio Gioanola ha individuato nei suoi personaggi una carenza di ”sintonia” con la realtà, come fossero sempre distaccati dalle cose e guardassero la vita da spettatori di uno spettacolo cui sono estranei. Da qui la pirandelliana ”dislocazione polifonica” delle voci che parlano. [...]» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 18/7/2005) • «[...] il suo primo libro, Le storie di Simonetta, affidato casualmente a un rappresentante dell’editoria scolastica quando lei era ancora insegnante a Savona, è uscito nel ”60 [...] ”Il mio primo incontro giusto è stato quello con Emilio Lagorio, che sposai quand’ero poco più che una ragazzina. Emilio era un intellettuale rigorosissimo, di famiglia di antica tradizione socialista. Dopo l’8 settembre entrò nella Resistenza e nel Partito comunista. Aveva fatto studi di economia e di diritto, ma era un grande conoscitore di musica, di letteratura e di cinema. Era amico di Angelo Barile, il poeta amico fraterno di Sbarbaro. Attraverso Barile ho conosciuto Svarvaro, e io che ero allora una ragazzotta ignorante e appassionata, ho sempre considerato entrambi i miei angeli custodi [...] Garzanti l’ho conosciuto a Milano nel 1973, dopo che nel ”64, alla morte di Emilio, avevo cominciato a lavorare furiosamente per l’editoria per integrare i guadagni di insegnate. Livio non era solo l’uomo dalla straordinaria intelleigenza che tutti gli riconoscevano: era un uomo bellissimo. Estroso, matto come un cavallo, fascinosissimo. l’incontro con lui è stato come un furioso ritorno alla vita dopo gli anni durissimi della vedovanza. stata una storia tormentosa [...]”» (Elisabetta Rasy, ”Sette” n. 42/2005).