Ezio Pasero, Il Messaggero, 30/07/1996;, 30 luglio 1996
CARCERI TURCHE
Albino Cimini, 45 anni, titolare di un negozio di serrande a Terni. In vacanza in Turchia nel 1976, viene fermato a Dogubeyazit, dove gli trovano due etti di hashish. Arrestato, processato e condannato a morte, condanna poi mutata in ergastolo. Lo mettono nel carcere di Acri, palazzina di tre piani, terzo piano, il posto migliore ”perchè almeno aveva le finestre”. Camerate di ottanta persone, senza letti. Il cibo viene distribuito una volta al mese: dieci chili di maccheroni, mezzo chilo di formaggio, mezzo chilo di olive, qualche cucchiaio di marmellata. Lotta con gli altri detenuti per difendere le provviste. Si cucina su stufette a kerosene, ma il kerosene bisogna comprarselo. Tragedia d’inverno, quando fa anche trenta gradi sotto zero. Ci si riscalda con stufette a legna, ma viene concessa solo mezz’ora al giorno per tagliarla (dalle 18.00 alle 18.30) e il detenuto addetto alla bisogna non può essere che uno. Il console italiano poteva andarlo a visitare una volta al mese, i genitori una volta all’anno e mai insieme. I genitori e il console si presentavano sempre con libri, ottimi da bruciare. Fra le torture: scosse elettriche ai testicoli, bastonate al sacco dove il prigioniero veniva rinchiuso con un gatto, obbligo di bere acqua salata, obbligo di stare molte ore in piedi appoggiati al muro con i soli indici (percosse quando si cadeva giù). Così per undici anni, fino a un accordo tra Italia e Turchia. Cimini, se vuole, può anche tornare laggiù. Ma basterebbe una minima infrazione per fargli scontare il resto della pena. [14]