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 2002  febbraio 22 Venerdì calendario

DE BENEDETTI Carlo Torino 14 novembre 1934. Imprenditore • «Per un periodo, breve, lavorò in Fiat, per uno, lungo, in Olivetti

DE BENEDETTI Carlo Torino 14 novembre 1934. Imprenditore • «Per un periodo, breve, lavorò in Fiat, per uno, lungo, in Olivetti. Nel primo caso litigò con il management e uscì sbattendo la porta dopo pochi mesi, nel secondo se ne andò lasciando dietro di sé un’azienda in macerie. Non si capì mai se a Ivrea si producevano macchine da scrivere molto belle o computer molto brutti. Negli anni Ottanta era considerato un mito dell’imprenditoria italiana. Nel 1983 divenne Cavaliere del lavoro. Ama essere definito un industriale. In realtà è un finanziato (finanziere). Epiche le sue battaglie: in Belgio per il controllo della Société génerale de Belgique, a Segrate per il controllo della Mondadori. Le perse entrambe. E proprietario dell’’Espresso” e della ”Repubblica”, dove è chiamato l’Editore Epurato. Viene da sempre considerato vicino ai governi progressisti. In realtà è un capitalista memore della lezione di Lenin: campa con la paura addosso di produrre la corda con cui lo impiccheranno. Fu un governo tecnico, però, a dargli la licenza per la telefonia mobile, giusto il giorno prima di cadere. Ha un fratello che a noi piace, Franco. Ma sin da giovane ne ha preso le distanze, mettendo tra di loro uno spazio nel cognome» (’Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini”, 10/10/1998). «Per adesso - come ha voluto intitolare qualche anno fa un corposo libro-intervista - è partito dalla fabbrica paterna in un cortile di Torino per arrivare a un gruppo che in Borsa capitalizza più di quattro miliardi, ha guidato per cento giorni la Fiat e per vent’anni la Olivetti, ha conquistato un posto e un nome nella finanza francese e fallito la scalata a quella belga, ha duellato con Silvio Berlusconi sulla Sme e ha perso, ha duellato con Silvio Berlusconi sulla Mondadori ed è finita alla pari, si è lanciato sull’onda della new economy ed ha preso a cuore i problemi dello Stato sociale.
Per adesso e per sempre, insomma, Carlo De Benedetti ha trasformato il suo destino di piccolo imprenditore con l’agognata Giulietta Sprint in garage e la carriera assicurata nei tubi flessibili di famiglia, in quello di un capitalista a tutto tondo, che di quella definizione apprezza in pieno il significato ma tenta anche di allargarne i limiti, proiettando una classica storia di capitalismo familiare italiano sulla scena internazionale. [...] vale in fondo quell’autoritratto inciso nel 1983: ”Io, Carlo De Benedetti, anni quarantanove, cittadino italiano di professione imprenditore, dico che mi piace fare il capitalista e che sono fiero di esserlo. Non so quanti abbiano sufficiente orgoglio per pensarla così e per dirlo pubblicamente”. Ma che cosa è il capitalismo di De Benedetti? ” quello di un imprenditore che produce un valore aggiunto di qualche decina o centinaia di miliardi e che, dopo aver distribuito quasi tutto in salari, stipendi, interessi, imposte e contributi sociali, si vede restare in tasca alcune centinaia di milioni di profitto. Di questo profitto c’è solo da farsi un vanto”. Idee chiare, chiarissime, che piacciono a molti e dispiacciono invece ai tanti avversari finanziari e politici che si è guadagnato nel corso di una vita ricca di battaglie e segnata anche da qualche sconfitta. Lui però, consapevole e fiero di una ”diversità” che parte dall’origine ebraica del padre Rodolfo - con la fuga in Svizzera nel novembre 1943 e i due cuginetti presi dai tedeschi a pochi passi di distanza dal confine - e arriva alla sostanza di un uomo che si ritiene comunque di sinistra, rifugge di fronte a quella immagine di imprenditore spietato che spesso si trova ritagliata addosso. ”Nel mio modo di agire pure all’interno delle mie contraddizioni esistenziali, sono stato sovente spinto anche nel lavoro da motivazioni che definirei morali e sentimentali”. Certo a guardare indietro [...] c’è da essere colti da un senso di vertigine che è poi quello che si prova ripercorrendo le avventure del capitalismo italiano del dopoguerra. In un certo senso, la sua storia di imprenditore è paradigmatica dell’intera vicenda nazionale. Dall’azienda familiare di cui assume la guida nel 1968 all’acquisto della Gilardini e poi lo sbarco in Borsa con la Cir: strumento, la finanza, a cui ricorrerà spesso per unire le idee di un imprenditore innovativo con i capitali non sempre facili da trovare. E la Fiat, certamente: il profilo di De Benedetti non sarebbe completo senza disegnare nel suo mondo di riferimento le figure di Giovanni e Umberto Agnelli. ”Uno che è nato in fondo a un cortile a Torino e ha sempre ammirato da lontano l’Istituzione con la I maiuscola non può dire di no”, spiega lui alla prima moglie Mita Crosetti che nel 1976 gli chiede di non andare a fare l’amministratore delegato in Corso Marconi. Il passaggio nell’Istituzione durerà dal 4 maggio al 25 agosto del 1976 e si concluderà non benissimo. Ma nel corso degli anni successivi e fino alla fine, i rapporti con Giovanni e Umberto Agnelli saranno di grande e reciproca stima. E ancora la Olivetti, i vent’anni ”d’immense soddisfazioni, di preoccupazioni e anche di grandi dolori” che partono il 1° maggio 1978, vedono un’azienda decotta che faceva macchine calcolatrici trasformarsi in colosso informatico che sigla alleanze con i colossi d’Oltreoceano e poi non supera la crisi di fine Anni ’90. A settant’anni e nella quarta fase della sua vita - editore di ”Repubblica” e de ”L’Espresso”, convinto che proprio l’editoria e i media siano uno dei pochi settori dove il capitalismo italiano può ancora fare la sua parte in tempi di globalizzazione - Carlo De Benedetti è [...] un uomo pacificato con molti aspetti del suo passato. [...]» (’La Stampa” 12/11/2004). «Quando è stato a un passo dai tre più importanti traguardi, non ce l’ha fatta? Con la Sme... ” stata la politica a impedirmi, con la corruzione, di costruire un grande polo alimentare Buitoni-Sme. L’avvocato Scalera ha testimoniato in giudizio che aveva costituito una cordata alternativa, che poi non comprò la Sme, perché lo voleva Bettino Craxi”. Rilevò un’Olivetti quasi fallita, la portò alle stelle, ma poi non ne fermò il declino: alla sua uscita da Ivrea, in 18 anni, aveva distrutto ricchezza per quasi 6 mila miliardi di lire. Di lì a poco, Omnitel riporterà in alto Olivetti. Ma [...] era uscito. Un padrone da licenziare? ”No. Capii per tempo che in Europa non si potevano più fare computer. E l’Olivetti è stato l’unico produttore europeo a sopravvivere dandosi una nuova missione: gli altri sono spariti. Omnitel, da me fondata, si è rivelata la più grande creazione di valore della storia recente d’Italia”. Ma perché lascia poco prima del boom? ”Fui costretto dalle banche. Soprattutto da Mediobanca. Nessuna capì le potenzialità di Omnitel. Che cos’erano i debiti della vecchia Olivetti davanti alle prospettive di quel gioiello? Niente. Ma le banche misuravano solo i metri quadri dei capannoni”. E il fallito assalto alla Société Générale de Belgique? ”Persi per colpa mia. Peccai di troppa arroganza, perché dichiarai di aver vinto prima del tempo, e di troppa prudenza, perché lanciai l’Opa, alla quale non ero obbligato, quando avevo il 15%: sarebbe bastato rastrellare in silenzio fino al 30%, e sarebbe stata fatta”. In conclusione? ”Ho avuto più coraggio e più visione di altri. Ho rischiato di più, e forse ho anche perso di più. Ma i successi superano gli insuccessi e di una cosa sono fiero: ho sempre mantenuto la mia indipendenza, anche a costo di sacrificarvi l’interesse economico”» (Massimo Mucchetti, ”Corriere della Sera” 13/11/2004). «Alla vigilia del suo settantesimo compleanno ”The Financial Times” lo celebra [...] ricordando la sua storia: ” l’ultimo di quella generazione di Condottieri che includeva Agnelli e Raul Gardini”. L’allusione è a quei vent’anni tumultuosi in cui l’Ingegnere incrociò tutte le grandi vicende del capitalismo italiano ed europeo. un periodo che inizia nel 1976, anno della sua irruzione nello ”star-system” agnelliano, con il breve e burrascoso periodo al vertice della Fiat. Dopo il divorzio dagli Agnelli c’è l’ingresso nella Olivetti nel 1978. Poi nei ruggenti anni 80 della finanza facile arrivano le battaglie sul Banco Ambrosiano, la Mondadori, la Sme: dove alla dimensione economica si sovrappongono gli interventi politici, le manovre sui giudici. Nello stesso periodo è protagonista dello sbarco in Francia con la Valeo, e della scalata alla Société Générale. La tempesta di Mani Pulite coinvolge anche lui insieme a tutta la grande industria italiana. in quelle sfide che si definisce la prima immagine anomala di De Benedetti. Grande capitalista e outsider al tempo stesso. Dentro l’establishment e contro l’establishment. Portatore di strategie e di una cultura finanziaria americana dentro i piccoli mercati europei. Sempre pronto a mettersi in rotta di collisione con altri esponenti del capitalismo italiano ed europeo: Agnelli, Cuccia, Berlusconi, Romiti, Riboud, la Compagnie de Suez. Con quella epopea - e con le sue sconfitte spesso derivate proprio dalla mancanza di una rete di alleanze - lui ha fatto i conti e ha tracciato un bilancio [...] nel libro intervista Per Adesso (Longanesi) dove non mancano i passaggi autocritici: ”A 45 anni ’Time’ mi dedicava la copertina con il titolo Olivetti’s dazzling comeback, poi c’era stato lo straordinario successo della Valeo. Con una serie di vittorie alle spalle, a un certo punto pensai che le cose dovessero andarmi sempre bene”. La parabola ventennale delle grandi battaglie finisce con la drammatica uscita dalla Olivetti nel 1996, che coincide di fatto con il tramonto dell’industria informatica italiana. Da quella vicenda nasce in lui la convinzione che l’Italia e l’Europa hanno scarse chances di competere nei settori più aperti alla globalizzazione; per un industriale la sopravvivenza va cercata in quei mestieri dove sussistono delle barriere all’ingresso naturali che proteggono dal confronto con le irresistibili potenze emergenti della Cina e dell’India. L’enigmatico titolo Per Adesso sembrava alludere a un bilancio provvisorio, alla vigilia di altre avventure. E davvero da allora si è aperta per lui una fase diversa; forse più nuova nella dimensione umana e politica che in quella industriale. [...] ”Non sono mai stato iscritto a un partito - dice - ma i miei punti di riferimento ideali erano i repubblicani Ugo La Malfa e Bruno Visentini; il segretario del Pci Enrico Berlinguer per il fascino umano e morale, non sempre per le sue idee. Oggi mi sento di sinistra come lo era John Kennedy quando nel 1960 diceva: una società aperta che non è capace di aiutare tanti poveri non può salvare pochi ricchi; è un principio altrettanto valido se si riferisce alle diseguaglianze sociali in America o al divario mondiale tra Nord e Sud”. Dopo aver guidato imprese in settori molto diversi, alla fine nel mestiere di editore ha trovato la sua passione più tenace. I suoi punti di riferimento ideali sono le famiglie di editori del grande giornalismo americano, i Sulzberger del ”New York Times”, i Graham del ”Washington Post”. Ma in nessun altro paese esiste qualcosa di simile al fenomeno-’Repubblica”. ”Giornale-partito” è una semplificazione con cui si è cercato di esprimere l´eccezionalità di questa testata. Neppure il ”New York Times” ha un’influenza così forte sui democratici americani, come ”Repubblica” la esercita sulla sinistra italiana; nessun giornale americano ha un peso così determinante nell’opposizione a Bush, come ”Repubblica” con Berlusconi. Questa anomalìa è all’origine di una tensione permanente con gli stessi partiti del centro-sinistra, che De Benedetti nel 1999 commentava così: ”Pensate cosa sarebbe oggi la stampa italiana se non esistesse la ’Repubblica’ o, ancor peggio, se nel 1991 (al termine della battaglia sulla Mondadori, ndr) fosse finita in mano a Berlusconi. La libertà di stampa si sarebbe ristretta e il centro-sinistra non avrebbe mai vinto le elezioni, cosa che sovente alcuni suoi esponenti dimenticano, e si irritano per l’indipendenza dei giornali del mio gruppo. [...] Vorrei il riconoscimento di essere sopravvissuto - e di aver fatto qualcosa - in un paese dove è obbligatorio far parte di una congregazione, di una cordata, di un clan. Spero di lasciare la testimonianza che a quella logica ci si può ribellare [...] Ho sempre avuto un gusto dell’indipendenza che rasenta l’ostentazione e la superbia intellettuale”. Il suo peggiore difetto, o la qualità che lo perseguita» (Federico Rampini, ”la Repubblica” 13/11/2004).