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 2002  marzo 11 Lunedì calendario

Durano Giustino

• Brindisi 5 maggio 1923, Bologna 18 febbraio 2002. «Aveva la voce di un orco gentile e il candore di un bambino. Aveva anche l’energia di un fondista, che ha conservato fino all’ultimo, fino a quando l´insorgere del male che lo ha ucciso lo ha costretto a interrompere le prove del Racconto d’inverno di Shakespeare, in cui avrebbe dovuto interpretare il personaggio di Autolico. Questo spettacolo era prodotto dall’ultima casa tetrale di Durano, il Biondo di Palermo, che lo aveva ingaggiato con un contratto pluriennale e gli aveva anche offerto la possibilità di allestire E io le dico. Non era uno spettacolo qualunque. Realizzato completamente da sé, era un riepilogo di vita e d´arte, un mettersi in vetrina con le maschere, i tipi, le folgori comiche di cinquant´anni di carriera. Mica per narcisismo, vizio dal quale Durano era lontano le mille miglia, ma per amore dell’arte, per bisogno di ricordare e di non far dimenticare. Nel 2001 quello spettacolo approdò al ”Parenti” di Milano, e fu l’apoteosi. L’entusiasmo del pubblico fu incontenibile, la critica parve riscoprire (ce n’era bisogno?) un talento di grana speciale e gli assegnò un ”Ubu” alla carriera. Premio prezioso, che si aggiunse al Nastro d’argento per il miglior attore non protagonista nel film di Benigni La vita è bella. Prevedibile il trionfo milanese? Forse. Durano doveva molto a Milano. E viceversa. Pugliese, aveva conquistato stile e pubblico proprio a Milano. Nel ”Piccolo” di Strehler e Grassi, certo; ma prima ancora con Dario Fo. Erano i primi anni Cinquanta. All’Odeon i due sprizzavano scintille con la rivista ”Cocoricò”: paglietta in testa, bastoncino in mano, gesti gemelli, i due inauguravano una comicità simmetrica, ritmica e un tantino pazza. Sembravano due Chevalier che avessero letto le prime commedie di Ionesco. A loro si aggiunse, nel ’53, Franco Parenti e fecero Il dito nell’occhio, seguito da Sani da legare: riviste da camera in cui l’elemento mimico era fondamentale, non a caso vi collaborò Jacques Lecoq. Nel terzetto, Durano mostrava una cifra tutta sua. Aveva un dinamismo da clown; e, come i clown, sembrava calzare invisibili scarpe lunghe un metro con cui trepestava non sulle assi del palcoscenico, ma sulla segatura della pista. In quegli anni Durano creò uno stile cui rimase fedele per tutta la vita: in teatro, ma anche al cinema, dove esordì proprio accanto a Fo con Lo svitato e continuò con Blasetti, Mattòli, Philippe de Broca, Oldoini. Naturalmente è stato il teatro il punto di riferimento dal quale Durano non prescindeva, magari a fasi alterne. Nessun repertorio gli sembrava impossibile. Poteva recitare Mamet e Pirandello trovando sempre un proprio modo di collocarsi. Era tale la sua generosità, che non esitava a recitare anche in siciliano, come accadde un paio d´anni fa con Annata ricca di Martoglio. Epico e astratto, Durano correva spesso un rischio: quello dell’eccesso. Quando sentiva vibrare dentro di sé la ”corda pazza”, partiva per la tangente, dilatava il personaggio, lo proiettava ad altezze che davano agli altri le vertigini. Anche in quei casi Durano tornava clown e con il suo vocione da orco creava le più straordinarie, irresistibili, strampalate dolcezze d´arte. Nessuno più potrà essere come lui» (Osvaldo Guerrieri, ”La Stampa” 19/2/2002). « stato un grande fantasista, l’ultimo attore definibile con una parola oggi passata dal teatro al calcio. Immaginatevi un personaggio capace di attraversare i diversi generi con totale nonchalance, conservando quel gusto della deformazione che lo rendeva unico, perché lo estraniava da ogni prevedibile identificazione con la parte che recitava imponendole il suo stampo allampanato e un po’ lunare. Cantante leggero ma anche baritono, poteva esibirsi col Duo Capinere, interpretare Rossini o prodursi in un ”Pierrot lunaire” sotto un tendone da circo, alternare l’avanspettacolo con la tragedia, partecipare alla grande rivista con la Wandissima e Macario, magari in trio con Bramieri e Vianello, ma anche fare cinema con la Lollo o la Loren, diretto da Blasetti o De Sica, o venire segnalato con un Nastro d’Argento per aver dato vita a un indimenticabile zio di Benigni in La vita è bella. Sarebbe stato un fenomeno anche nel teatro all’antica italiana, avvezzo alla versatilità come lo sono tuttora i paesi di più alta civiltà teatrale. Fosse nato negli Stati Uniti sarebbe diventato un Walter Matthau; e invece per ascendere dalla natia Brindisi alle ”luminose” non da molto uscite dall’oscuramento della Milano fine anni 40, dovette salire sul Carro di Tespi delle Forze Armate americane e assumere il nome provvisorio di Justin Duran. Nella sua nuova città esisteva allora una fabbrica di talenti che si chiamava Radio, dove si affinava la voce e si aguzzava lo spirito; ed è lì che Durano incontra Franco Parenti e Dario Fo, un trio che arriva, non senza traversie - col sostegno di Paolo Grassi che gli concede il Piccolo Teatro - a montare due spettacoli che danno inizio alla rivista da camera per l’acceso impegno politico degli sketch, l’immediatezza del linguaggio e la fisicità dell’azione garantita dal contributo determinante di Jacques Lecoq» (Franco Quadri, ”la Repubblica” 19/2/2002).