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 2002  marzo 18 Lunedì calendario

Biografia di Margaret d’Inghilterra

• 21 agosto 1930, 9 febbraio 2002 • «Dopo gli scandali che hanno scosso casa Windsor, per colpa della disgraziata Diana o della disinvolta Fergie, bisogna sforzarsi per ricordare che ribelle sia stata, per mezzo secolo, la principessa Margaret. Dapprima fidanzata della nazione britannica e stella dei rotocalchi di tutto il mondo, deliziosa ragazza stretta nella rigida armatura di corte, poi cuore spezzato che non poteva sposare l’amato capitano Townsend, perché già infelicemente coniugato, quindi regina degli Swinging Sixties con quel marito, Antony Armstrong-Jones (Lord Snowdon), che sostituì Cecil Beaton come fotografo ufficiale di corte, infine permalosa, intollerante dittatrice dei salotti, la sigaretta in una mano e il bicchiere di whisky nell’altra, che convocava gli amanti sull’isola-rifugio di Mustique, ai Caraibi, dove svernava per superare la noia della vita. ”Viziata marcia”, la definì anni fa un cortigiano, e ”Principessa selvaggia” fu a lungo il titolo preferito dei giornali. Finché, infine, diventò il ”problema Margaret”: il problema esistenziale, pare, di non aver problemi. Rotondetta e minuta - 158 centimetri d’altezza - ma insolitamente graziosa per essere una Windsor, spiritosa, sexy e ricca, Margaret aveva infatti tutti i vantaggi che la nascita possa garantire. Qualunque titolo o merito vantasse una ragazza dell’aristocrazia o dell’alta borghesia, la sorellina di Elisabetta II ne aveva di più. Estroversa, capricciosa, dispettosa, era fin da bambina, secondo la bambinaia reale Crawfie, ”fatta per essere coccolata”. E così nell’immediato dopoguerra emerse come ”un regalo insperato per i fotografi” e, a parere d’un biografo, ”di gran lunga più interessante del noioso, buon re Giorgio VI e della noiosa, buona principessa Elisabetta”. Era la gioia dei tabloid , nei tardi anni ”40, anche perché la stampa non s’azzardava a riferire che la diciassettenne principessa aveva perso la testa per il capitano Peter Townsend, anni 32, già sposato. Furono i giorni, probabilmente, in cui Margaret forgiò, bene o male, il suo carattere. Avendo visto il padre sostituire sul trono Edoardo VIII, che aveva abdicato per sposare l’americana Wallis Simpson, s’arrogò la superbia che l’avrebbe sempre accompagnata: incapace di perdonare, non volle mai vedere la vituperata duchessa di Windsor, se non da morta. Ma imparò anche che, nel giardino dell’Eden in cui credeva di vivere, non tutti i frutti si possono cogliere: l’esilio, cui era stato condannato lo zio insensibile ai doveri reali, le fu agitato come una minaccia se avesse insistito a volere il capitano, su cui la corte e la Chiesa anglicana avevano posto il veto. Finché la vicenda divenne pubblica, ma, allo stesso tempo, superata: nel 1952, all’incoronazione della sorella Elisabetta II, Margaret osò togliere un granello di polvere dalla giacca di Townsend - davanti a tutti - e rivelò così l’intimità nascosta per anni. Inutilmente perché, quando il capitano ottenne il divorzio, la principessa s’era già snervata nell’attesa e annunciò la rinuncia all’arcivescovo di Canterbury. Era fatta. Se la vita aveva limiti, Margaret non li avrebbe superati, non sarebbe diventata una Diana anzitempo, pronta a giocare fino in fondo la sfida della ribellione. Ma, quei limiti, avrebbe provato a saggiarli tutti. Disinvolta, pronta, arguta, divenne la ragazza a cui ogni uomo cadeva ai piedi, negli anni che covavano la liberazione dei costumi. L’attore Peter Sellers se ne invaghì come un adolescente e John Lennon, il Beatle, trovò per lei un affettuoso gioco di parole: invece di Princess Margaret, la chiamava ”Priceless Margarine”, Margarina Senza Prezzo, cioè inestimabile. Ma lei scelse come marito un fotografo, Tony Armstrong-Jones, con cui formò la ”golden couple” di Londra: moderni, interessati all’arte, i coniugi Snowdon erano invitati ovunque, in Sardegna con l’Aga Khan, sull’isola Spetsapoula dei Niarchos, o a Villa Malcontenta, sulla riviera del Brenta, il cui nome sarebbe stato premonitore. Perché, malgrado il fascino della coppia (Cyril Connolly, critico letterario e snob di professione, diceva che ”stare a Londra senza incontrare gli Snowdon è come stare in paradiso senza vedere Dio”), la dolce favola già volgeva al rancido. La Principessa Incantevole era sempre più Principessa Musona, sgarbata anziché schietta, sconcertante anziché imprevedibile, egocentrica anziché centro dell’attenzione. Troppe stranezze, troppe spese pazze, troppi ritiri a Mustique, troppi impegni ufficiali cancellati, troppe voci sulla sua vita privata, compresa quella di un tentato suicidio, perché le proteste dei puritani non si facessero sentire. ”Princess Baggage”, la definì un laburista, per imputarne le promiscuità: malgrado i due figli, il visconte Linley e Lady Sarah, il matrimonio con Tony Armstrong-Jones naufragava tra infedeltà (reciproche) ed eccessi. Ma qual era il ”problema Margaret”? Gore Vidal scrisse di lei: ”E’ di gran lunga troppo intelligente per la sua posizione, che però prende assolutamente troppo sul serio”. Margaret, cioè, sapeva che essere una Windsor in fondo non conta nulla, eppure non aveva il coraggio di scendere dal piedestallo reale. Era mondana e spigliata, ma s’inviperiva al minimo accenno di lesa maestà: solo Danny Kaye, il grande comico, si permetteva di chiamarla ”Honey”. Agli altri, se per caso nelle lunghe serate sui divani di Clarence House o di Kensington Palace si facevano sfuggire un colloquiale riferimento a sua ”sorella”, Margaret sibilava: ”La regina, intendi?”. E quelle serate, per i dolori della servitù, non finivano mai: perché lei soffriva d’insonnia e gli ospiti, noblesse oblige , non erano autorizzati a ritirarsi prima di Sua Altezza Reale. Il cliché della principessa malmostosa era così stabilito: prima Margaret s’appoggiò a Robin Douglas-Home, un pianista delicato, nipote del primo ministro conservatore, che finirà suicida. Poi negli Anni Settanta, in attesa del divorzio, cercherà sostegno in Roddy Llewellyn, un arredatore d’esterni, 17 anni più giovane di lei, il quale, benché trovasse difficile da sostenere ”il lato fisico della relazione” (prima di conoscerla, conviveva con un amico, arredatore d’interni, gay), le stette al fianco fino al giorno in cui annunciò che sposava un’altra. Amareggiata, ormai evitata dai cortigiani, cominciò ad accusare i colpi: niente sigarette, niente whisky prima delle sei, ma in cambio un cuore traballante, un primo ictus, forse un secondo, e infine strani incidenti, come quello in cui si scottò i piedi con l’acqua bollente. Naturalmente, molti si chiesero (e ancora si chiederanno) da dove venisse l’amarezza, si potrebbe dire il rancore, che incrinò la vita di Margaret Rose Windsor. E, al solito, le colpe si fecero ricadere sui genitori: dicono che la madre, l’ultracentenaria regina madre, avesse rivolto tutte le attenzioni a Elisabetta, che doveva diventare regina, mentre Margaret sarebbe stata risarcita dal padre, Giorgio VI, col privilegio dei vizi che rovinano i bambini: ”Margaret era il gattino del re... era autorizzata a stare alzata per cena già all’eta di 13 anni e diventò grande troppo in fretta”, dicono le memorie di una cortigiana degli anni ”40. Margaret, insomma, patì di essere secondogenita in una famiglia dove l’eredità, cioè il trono, andava alla sorella maggiore. Sconsolata e delusa perché non era regina? Forse, come molti di noi che non si volgono a guardare chi sta peggio, Margaret soffriva semplicemente d’invidia» (Alessio Altichieri, ”Corriere della Sera” 10/2/2002). Vedi anche: Enzo Biagi, ”Sette” n. 1-2/2001;