Il Foglio, 21 novembre 2020
Prima che scatti la tregua
Ogni tanto, nei luoghi martoriati da guerre di bande benevolmente riguardate dai grandi della terra, il fiume di sangue esonda e si concorda una tregua. La tregua, si stabilisce, entrerà in vigore alle ore 12 di mercoledì – o a un’altra ora di un altro giorno, non importa. È martedì, alle 9 di mattina, restano solo 27 ore per scaricare sul rispettivo nemico e sulle sue case scuole ospedali la più gran quantità di proiettili bombe e gas che sia possibile, aggiudicarsi un record spettacoloso di distruzione, sventare il rischio che bombe gas e proiettili diventino un avanzo di magazzino o peggio siano confiscate dai titolari di una prossima pace.
Per le famiglie umane e per gli altri animali non c’è momento più micidiale della vigilia di una tregua, pur tanto invocata. Bisogna scavare, anche solo con le mani, con le unghie, seppellire sé e i propri figli e i propri beni più cari in un buco del suolo e resistere fino alle 12 di mercoledì. Anche qualche minuto in più, per precauzione: dall’altra parte c’è qualcuno che non si rassegna a restare con una granata non smaltita. Sono così, certe vigilie d’armi. Come riempirsi la casa di pane pasta cortisone e sigarette prima che scatti la zona rossa.
Come rintanarsi e durare fino al vaccino. Come uno psicopatico nel bunker. Ha la scadenza fissata, a gennaio. Deve affrettarsi. Insediare la giudice fidata. Licenziare i capi del Pentagono e della sicurezza interna. Vendere le trivellazioni dell’Alaska. Mandare Pompeo nella colonia in Cisgiordania. Ritirare truppe di qua e di là. Avvelenare i pozzi. Procurarsi un salvacondotto. Con l’acqua alla gola, prima del suo mercoledì alle 12.