9 maggio 1978
Ucciso Moro, Sciascia e la telefonata delle Br
Ecco il passo dell’Affaire Moro in cui Leonardo Sciascia trascrive e
commenta la telefonata con la quale le Brigate rosse annunciarono la
morte di Aldo Moro.
La mattina del 9 maggio il professor Franco Tritto, amico
della famiglia Moro, riceve una telefonata (e non era la prima) da parte delle Brigate
rosse. Registrata dalla polizia, la telefonata è stata due mesi dopo diffusa
dalla radiotelevisione – con l’inconsulta speranza che qualcuno riconoscesse la
voce: e si può immaginare quanti mitomani l’avranno riconosciuta e quanti
malvagi avranno tentato di inguaiare qualche loro nemico o amico – e trascritta
dai giornali.
BRIGATISTA. «Pronto? È il professor Franco Tritto?».
TRITTO. «Chi
parla?».
B. «Il dottor Nicolai».
T. «Chi Nicolai?».
B. «È lei il professor
Franco Tritto?».
T. «Sì, sono io».
B. «Ecco, mi sembrava di riconoscere la
voce... Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto
controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla famiglia».
T. «Sì, ma io
voglio sapere chi parla».
B. «Brigate rosse. Ha capito?».
T. «Sì».
B. «Ecco,
non posso stare molto al telefono. Quindi dovrebbe dire questa cosa alla famiglia,
dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non
fa niente, dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime
volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo
dell’onorevole Aldo Moro».
T. «Ma che cosa dovrei fare?».
B. «Mi sente?».
T. «No;
se può ripetere, per cortesia...».
B. «No, non posso ripetere, guardi... Allora
lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo
Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe
Oscure. Va bene?».
T. «Sì».
B. «Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di
targa sono N 5».
T. «N 5? Devo telefonare io» (ed è preso dal pianto).
B. «No, dovrebbe andare personalmente».
T. «Non
posso...».
B. «Non può? Dovrebbe, per forza...».
T. «Sì, certo, sì...».
B. «Mi
dispiace. Cioè se lei telefona non... non verrebbe meno all’adempimento delle richieste
che ci aveva fatto espressamente il presidente...».
T. «Parli con mio padre, la
prego...» (nel pianto, non riesce più a
parlare).
B. «Va bene».
T. PADRE. «Pronto? Che mi dice?».
B. «Lei dovrebbe
andare dalla famiglia dell’onorevole Moro oppure mandare suo figlio o comunque
telefonare».
T. PADRE. «Sì».
B. «Basta che lo facciano. Il messaggio ce l’ha
già suo figlio. Va bene?».
T. PADRE. «Non posso andare io?».
B. «Lei, può
andare anche lei».
T. PADRE. «Perché mio figlio non sta bene».
B. «Può andare
anche lei, va benissimo, certamente: purché lo faccia con urgenza; perché le
volontà, l’ultima volontà dell’onorevole è questa: cioè di comunicare alla famiglia,
perché la famiglia doveva riavere il suo corpo... Va bene? Arrivederci».
Si è
voluto riportare integralmente questo dialogo perché dà luogo a delle non
inutili riflessioni. La prima riguarda la durata: tra lo smarrimento di Tritto,
il suo pianto, il passaggio del telefono al padre, le esitazioni e le ripetizioni
del brigatista, non meno di tre minuti. Certo involontariamente, nella confusione
e commozione in cui lo gettava la notizia, Tritto si è comportato come chi vuol
prendere tempo e darne alla polizia. Poiché il brigatista telefonava dalla
stazione Termini, dove c’è un posto di polizia e nelle cui vicinanze è da
presumere si trovino sempre delle autopattuglie collegate per radio alla questura,
prenderlo sul finire della telefonata non sarebbe stato impossibile. Questa
stessa considerazione va ribaltata sul brigatista: sa che il telefono di casa
Tritto è sotto controllo, sa che l’attardarsi nella telefonata può essergli fatale;
eppure è paziente, meticoloso, riguardoso persino. Ripete, si lascia andare a
un «mi dispiace»; e insomma diluisce in più di tre minuti una comunicazione che
avrebbe potuto dare in trenta secondi. Si può spiegare questo suo comportamento
con la sicurezza — che gli viene da una ormai lunga sperimentazione — di un
muoversi della polizia mai a misura di minuti (e infatti: «la prima pantera
biancoblù della polizia arriva ululando in via Caetani alle 13,20»); ma non si
poteva sottovalutare il rischio che questa volta, per l’enormità della notizia
e dopo quasi due mesi di affinamento alla caccia, scattasse un’operazione di
eccezionale celerità. Che cosa dunque trattiene il brigatista a quella
telefonata, se non l’adempimento di
un dovere che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nell’umana pietà? La voce
è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà. E il
rispetto. Per quattro volte chiama Moro «l’onorevole» e per due volte «il presidente».
Quel linguaggio tra goliardico e da sezione rionale del Partito Comunista con
cui nei comunicati le Brigate parlavano di Moro, è scomparso. «L’onorevole»,
«il presidente». Nel loro manifesto o latente antiparlamentarismo – non del
tutto gratuito, non del tutto ingiustificato — mai credo gli italiani avevano
pensato che il titolo di «onorevole» venisse da «onore» come nel momento in cui
l’hanno sentito dalla voce del brigatista accompagnarsi al nome di Moro. Forse
ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e
contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento,
la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo
devasti. [Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi, Milano 1994]