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Léonide Messine, spentosi l’altra sera in un ospedale renano dopo breve malattia, è stato uno dei personaggi più straordinari del balletto del Novecento e una delle stelle della celebre compagnia di Sergej Diaghilev, i Balletts russes. Era nato il 9 agosto 1896 a Mosca, da una famiglia di artisti. Aveva seguito i corsi dell’accademia teatrale con l’intenzione di diventare attore; fu tuttavia presto inserito nel mondo della danza. La sua presenza nei Ballets russes divenne fondamentale dopo il divorzio fra Diaghilev e il grande Vaslav Nijinski. Massine, temperamento assai versatile, allargò lo spettro coreografico della compagnia uscendo dalle favole e dalle storie epiche per toccare i temi della commedia dell’arte e ridando dignità, nel Tricorno, alla danza spagnola. Riprese i capolavori di Nijinski, come Petruska e il Sacre du printemps, imponendosi come danzatore dì grande vigore atletico e di saporito spirito di caratterizzazione. Dopo lo scioglimento dei Ballets russes, all’attivo del giovane moscovita, dall’aspetto singolarmente mediterraneo, restarono creazioni che ne stabilirono per sempre la fama, come Parade, Les femmes de bonne humour, Pas d’acier, Pulcinella, Le astuzie femminili, Salade. Presente prima e dopo la guerra in molte stagioni alla Scala, dove allestì Belkis, Mario e il mago e Fantasmi al Grand Hotel di Chailly-Buzzati, Leonide Messine conservava un affetto speciale per il teatro milanese. Malgrado la non buona salute e a dispetto dei suoi 83 anni, restava un grande, instancabile viaggiatore e conservava intatta la sua capacità di pensare, lavorare, produrre. Aveva iniziato una specie di giro del mondo, dall’America alla Germania, per rimettere in piedi — mi disse — alcuni suoi spettacoli. La sua ultima serata milanese fu un tuffo nei ricordi. L’inventore dei balletti sinfonici, genere oggi in gran voga, lascia anche un ricordo per gli appassionati del cinema, con Scarpette rosse e Carosello napoletano. Ma quello che ci rendeva caro questo piccolo grande uomo era iI furibondo affetto per la vita e per le cose, il coraggio di non arrendersi mai, il saper combattere senza cedimenti e senza lacrime l’infamia del tempo (M. P. sul Corriere della Sera).
Giovedì 10 maggio 1979
Incontro con Fred Astaire
«Un collega del ”New York Times” m’invita al Plaza a un cocktail in onore di Fred Astaire che ha compiuto ottant’anni e si è appena risposato. Sempre agile, dinoccolato, elegante e sorridente, non è più magro come un chiodo: è magro come uno spillo, come un ago di pino. E’ stato per la danza quello che Sinatra è stato per la canzone, Chaplin per il cinema, Einstein per la scienza, Picasso per la pittura, Freud per l’inconscio, Strawinskij per la musica classica. Mi avvicino, gli stringo la mano e lo rivedo mentre, nel film ”Roberta”, balla con Ginger Rogers ”Smoke gets in your eyes”. Un folletto divino, un genio assoluto, un mito, ma anche un uomo affabile, alla mano. Mi chiede da dove venga. Gli rispondo: ”Da Roma”. ”Mi sarebbe piaciuto esibirmi nell’arena del Colosseo” ”Dove, una volta – gli dico - i gladiatori si scannavano e i leoni sbranavano i cristiani”. Annuisce. ”Se l’avessero vista ballare con Ginger Rogers o Cyd Charisse - commento – i leoni si sarebbero ammansiti”. Sorride e a passo di danza guadagna il buffet e si fa servire una coppa di Cristal, dallo stelo sottile come il suo giro di vita. Un critico ha scritto: ”Fred Astaire è come lo champagne; tutto il resto è birra”» (Roberto Gervaso) (Il Messaggero 28/08/2006, pag.15 Roberto Gervaso)