Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
L’evidente verità del caso Cucchi, il ragazzo pestato a morte dai carabinieri, disperatamente nascosta o negata per più di sette anni, è stata riportata alla luce dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e dal pubblico ministero Giovanni Musarò, che ieri hanno accusato di omicidio preterintenzionale i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, cioè alcuni di quelli che pestarono il disgraziato giovane. Francesco Tedesco è anche accusato di calunnia, e con lui dovranno rispondere di questo reato il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante della stazione Appia, e il carabiniere Vincenzo Nicolardi. Mandolini e Tedesco sono imputati anche di falso verbale d’arresto. Insomma, oltre all’omicidio, le menzogne.
• Non c’erano già stati dei processi? Si ricomincia daccapo?
Tre processi e un giudizio di legittimità (Cassazione). Lei ricorda la storia?
• Per sommi capi.
La notte del 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi, di 31 anni, va in giro con un suo amico per il Parco degli Acquedotti, a Roma. Sono a bordo di due macchine e fanno gli spiritosi, guidando le auto affiancate. I carabinieri li fermano e li portano alla stazione Casilina. Stefano è un epilettico, un tossico, già nei guai per aver forzato un posto di blocco qualche anno prima, adesso lavora da geometra con il padre. Ha addosso 20 grammi di hascisc «ben confezionato », due grammi di coca e quattro pasticche di ecstasy. Troppo. Lo chiudono nella cella della stazione e mandano via il suo amico. Una settimana dopo lo ritroviamo cadavere nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma. La famiglia diffonde le foto del corpo, e il corpo appare massacrato. Come sappiamo anche dai referti medici, risultano particolarmente evidenti profonde ecchimosi alla schiena in corrispondenza di tre vertebre fratturate (tra cui il coccige), la mandibola fatta a pezzi, un occhio schiacciato nell’orbita con vasti ematomi alle palpebre, segni di violenza di varia intensità diffusi in altre parti del corpo. Nel primo processo, i giudici della corte d’assise assolvono gli agenti penitenziari accusati del pestaggio, e condannano i medici e gli infermieri del Pertini imputandoli di non aver curato bene un malato. Si va in appello e l’appello conferma le assoluzioni per gli agenti penitenziari, ma ribalta la sentenza di primo grado relativamente a medici e infermieri, assolvendoli tutti. Questa conclusione non sta bene alla Cassazione, che nel dicembre 2015 ordina di rifare l’appello, perché non è possibile che la scienza di oggi non sia in grado di dirci con esattezza perché è morto Stefano Cucchi. Il processo d’appello, però, assolve nuovamente tutti. Siamo cioè invitati a credere che Cucchi, ridotto in quelle condizioni, sia morto per cause naturali o si sia suicidato rifiutando acqua e cibo.
• In che momento entra in scena la Procura di Roma?
Dopo la prima sentenza d’appello, che aveva mandato tutti assolti, la Procura di Roma apre una seconda inchiesta e ricostruisce con precisione quello che è accaduto, grazie anche a una nuova perizia, confusa ma capace in ogni caso di connettere la morte di Stefano con le percosse ricevute. Nel comunicato di ieri, Pignatone e Musarò scrivono che Cucchi «fu colpito dai tre carabinieri che lo avevano arrestato con schiaffi, pugni e calci» e le botte «provocaronoi una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale» che «unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte».
• La «rovinosa caduta»... Non è un po’ poco per tutti quei danni?
Il nostro bravo collega Carlo Bonini ha pubblicato un libro l’anno scorso sul caso (Il corpo del reato, Feltrinelli) e la racconta in modo più realistico. Portato alla stazione dei carabinieri Casilino, dove stava il macchinario necessario alla fotosegnalazione, Cucchi fu fatto sedere su una sedia e qui avvenne qualcosa, o i carabinieri lo provocarono o Cucchi provocò i carabinieri, fatto sta che lo presero e lo fecero volare giù per le scale. Ci sono intercettazioni e in una di queste uno dei tre militi, dopo aver apostrofato Cucchi dell’appellativo di «drugat’e mmerda», aggiunge: non gliene avevamo mai date così tante a un arrestato...
• Segno che in quella caserma le botte erano la norma.
Pignatone e Musarò hanno cambiato il capo d’imputazione: non più le lesioni personali aggravate, che sarebbero andate presto in prescrizione, ma l’omicidio. E invece della falsa testimonianza, la calunnia. Aspettiamo il quarto processo per sapere se, questa volta, la verità verrà accertata.
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