Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Una petizione per ripetere il referendum, postata sul sito del Parlamento inglese, ha raccolto in poche ore un milione e ottocentomila firme. L’idea è questa: varare una legge che stabilisca in un consenso minimo del 60% e in una partecipazione minima del 75% le percentuali per rendere valido un referendum. Il guaio è che questa norma dovrebbe avere valore retroattivo, cioè essere un mostro giuridico. È dunque assai difficile che abbia un seguito, però obbligherà Westminster a discutere, perché ogni petizione che raccolga almeno centomila firme deve dar luogo a un dibattito parlamentare. Ci sono due precedenti: per due volte gli irlandesi hanno prima respinto e poi approvato, con quattro referendum complessivi, trattati dell’Unione europea. Un referendum che molto difficilmente si potrà evitare è quello scozzese: Edimburgo vuol restare nell’Unione europea, come dimostra il voto di giovedì, e Nicola Sturgeon, first minister di quel paese, vuole che si avviino discussioni immediate con Bruxelles «per proteggere il posto nella Ue della Scozia». Ieri si sono anche riuniti a Berlino i ministri degli Esteri dei paesi fondatori, Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda. Steinmeier, il tedesco, ha riassunto la posizione raggiunta dai sei, che peserà sul vertice di domani tra Merkel, Hollande e Renzi e sul summit dei capi di stato e di governo del giorno dopo: «Noi diciamo qui, assieme, che questo processo (l’uscita della Gran Bretagna) deve cominciare il prima possibile».
• Perché? Adesso gli inglesi vogliono perdere tempo?
La procedura prevede che il governo inglese notifichi a Bruxelles la sua volontà di uscire. Solo a quel punto possono cominciare le trattative. Cameron ha già detto che non intende notificare niente, lascerà volentieri questo compito al suo successore, di sicuro un fautore della Brexit. Costui però non si insedierà prima di ottobre, data del congresso laburista che sancirà l’uscita di scena di Cameron. Il premier d’autunno, per dir così, si guarderà bene dal prendere iniziative unilaterali: vorrà, sulla richiesta di uscita, la ratifica del Parlamento. Il Parlamento potrebbe ignorare l’esito di un voto popolare? Chi sa. Il referendum di giovedì scorso aveva in definitiva carattere consultivo. La politica alla fine può fare quello che vuole.
• Non è male stare tutti questi mesi nell’incertezza?
Infatti l’idea di Bruxelles, resa chiara dai ministri degli Esteri, è di obbligare Londra a sbrigarsi. Gli eurodeputati hanno già preparato una specifica risoluzione per imporre subito al premier dimissionario la notifica di Brexit perché «qualsiasi ritardo prolungherebbe l’incertezza». Il testo sarà approvato martedì mattina in una sessione straordinaria dell’europarlamento e Schulz la porterà nel pomeriggio al summit dei capi di Stato e di governo a Bruxelles. Il documento doveva contenere anche la richiesta di licenziare il commissario inglese Jonathan Hill, ma questi s’è dimesso spontaneamente ieri. L’europarlamento sta valutando anche la posizione dei 73 deputati britannici, tutti in qualche modo da sterilizzare politicamente. È stata infine convocata una riunione straordinaria della Commissione europea per affrontare i problemi tecnici relativi al futuro degli oltre 1.100 euroburocrati britannici e delle agenzie comunitarie per i farmaci e per la supervisione bancaria che hanno sede in Gran Bretagna.
• I primi effetti della Brexit saranno dunque i licenziamenti di personale inglese.
Siamo solo all’inizio, a quanto pare. Il potere finanziario di Londra, ora che non ha più a sua completa disposizione l’enorme mercato europeo, è seriamente minacciato. Si tratta di un milione di persone, distribuite tra la City e Canary Wharf, che hanno trattato finora il 40% di tutte le operazioni in valuta del mondo. Il Brexit toglierà agli inglesi il cosiddetto «passaporto finanziario», quello che dà diritto a chi opera nell’Unione europea di svolgere attività in altri paesi dell’area anche a distanza. Morgan Stanley ha già fatto sapere che sta traslocando almeno in parte (un po’ a Dublino, un po’ a Francoforte), Goldman Sachs sta valutando di trasferirsi a Madrid, Hsbc a Honk Kong, eccetera eccetera. Londra rischia di ridursi a una piccola piazza d’affari qualunque.
• Come si spiega che le borse italiana e spagnola sono precipitate, mentre la borsa di Londra ha perso poco?
Venerdì si sono vendute Spagna e Italia per via della loro fragilità politica. In Spagna hanno votato sei mesi fa, non sono riusciti a varare un governo, votano una seconda volta oggi, e può darsi che l’incertezza politica permanga. In Italia, Renzi ha perso le amministrative e i suoi avversari coalizzati hanno fatto vedere che potrebbero batterlo al referendum. Un paese con il nostro debito non può permettersi un’altra lunga crisi politica.
• L’Europa va in pezzi o no?
Potrebbe andare in pezzi. Marine Le Pen, che ha oggi il 30% dei consensi, potrebbe vincere le presidenziali del 2017 e pretendere un referendum per l’uscita. Una vittoria del Frexit sarebbe più grave della vittoria del Brexit perché la Francia, a differenza della Gran Bretagna, aderisce anche all’euro e a Schengen. Parlano di referendum anche l’olandese Geert Wilders, il danese Thulesen Dahl, la tedesca Frauke Petry. In Danimarca, il Partito del popolo di Thulese Dahl, alle ultime europee, ha preso più voti di tutti. Per non mandare in pezzi la Ue bisognerebbe che a Bruxelles capissero che oggi per governare senza consenso, come fanno banche e tecnocrati, bisognerebbe anche distruggere la cosiddetta democrazia. Prima che accada questo, mi pare più probabile che Bundesbank e i giudici costituzionali di Karlsruhe impongano l’uscita della Germania.
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